Emmanuel Macron con il sindaco di Nizza Christian Estrosi (foto LaPresse) 

Il sindaco di Nizza e le parole da non nascondere: “Islamofascismo”

Le lettere al direttore Claudio Cerasa del 30 ottobre 2020

Al direttore - Marcucci: seconda ondata renziana!
Giuseppe De Filippi

 


 

Al direttore - Ieri a Nizza tre persone sono state uccise all’interno della chiesa nel cuore della città. La cronaca la conoscete: una donna è stata decapitata, un uomo – il sacrestano – è stato sgozzato. La terza vittima, una donna, è morta per le ferite riportate in un bar dove aveva cercato rifugio fuggendo. Mi chiedo se qualcuno oggi in Italia avrà il coraggio non solo di indignarsi genericamente contro “ogni forma di violenza” ma avrà il coraggio nello specifico di denunciare una violenza in particolare: quella islamista.
Corrado Marini

 

Il sindaco di Nizza ieri lo ha detto chiaramente: “Dobbiamo sradicare l’islamofascismo”. Islamofascismo: perfetto. Quanti altri, fuori dalla Francia, avranno il coraggio di dirlo?

 


 

Al direttore - E’ una specie di sudoku famigliare: una moglie positiva al tampone, isolata in camera, poi riammessa alla socialità casalinga dal mio tampone positivo, due giorni dopo. Contemporaneamente Maddalena è positiva e alla notizia esplode in un grido di gioia, il gemello Rocco è negativo, e negativa nella doppia (e forse autentica) accezione del termine Bianca, che a nove anni piange disperata, perché la sorellina invece è positiva. Una casa di contagiati e di matti. In una settimana il  Covid’s sentiment è passato da domenica scorsa mentre eravamo belli, ignari con un bicchiere al sole, “ma prendiamocelo tutti ’sto virus e così stiamo tranquilli”, a poche ore dopo, il mercoledì, quando è entrato inatteso a casa nostra, con la paura legittima di mia moglie (“ho paura, stammi vicino”), fino alla domenica successiva quando la bestia che si è materializzata solo con due giorni di febbre e una certa debolezza è tornata a essere una “rottura, io non lo reggo un altro lockdown”. Quando il Covid ti entra in casa, dopo che per mesi è stato un protagonista immateriale del tuo lavoro, quei numeri che pensavi di saper maneggiare con tanta abilità, si annebbiano. Innanzitutto pensi con quale cifra sei rappresentato (mi sono immaginato come il positivo numero 483.217), ma quello che colpisce quando ti colpisce è “l’effetto interruttore”. Arriva il messaggino sul telefono (lei è positivo) e tempo quindici minuti sale la febbre. Primo effetto incredibile, la mia ipocondria recondita resta incredibilmente a bada, fino ai 38,5 come da regolamento famigliare non si prende Tachipirina, l’altro oggetto del desiderio/terrore è il saturimetro, 97, 98, 99 e daje no aspetta riscende, fino a 96, sudo e ancora non sfebbro, alle 21 e 30, mi calo di Tachi e aspetto. Intanto ho deciso di recuperare con la cinematografia mondiale al solito a me indigesta, “Il discorso del Re” bello e prevedibile (mia moglie mi avverte “guarda che lo hai già visto!”), intanto sudo davvero, sfebbro, spero, mi sento il petto. Erano almeno quindici anni che non vedevo neanche una linea di febbre, a letto non resisto, le gambe sembrano impazzite per calmarmi devo tornare alla mia cinematografia, ma neanche il megadirettore al casinò con Fantozzi che volteggia in aria mi fa ridere. Sono positivo e propositivo: decido che è il momento di finire il libro iniziato in estate, “I fratelli Karamazov”, letto oggi mentre sfebbro mi sembra leggero come i fratelli Righeira. Intanto la notizia si diffonde e il mondo ti chiama, e quando chi ti sta vicino ora è lontano, il tuo panorama sociale si dirada dalla nebbia in cui è sempre avvolto: amici, colleghi, parenti e serpenti, in poche ore tutto sembra chiaro, da chi ti vuole davvero bene  e non te ne eri accorto e te lo trovi sotto casa con le pastarelle per i bambini, a chi ti mostrava amicizia fraterna e adesso anche in videochiamata ha lo sguardo iniettato di terrore come se davvero con il 4G, manco con il 5, lo potessi davvero contagiare. L’unica che non ti chiama è l’Asl, anche il medico curante si materializza, dopo tre giorni ma si materializza, e finisce che sei tu che compatisci e lo tranquillizzi, perché invece del tuo virus si parla del suo studio pieno, dei vaccini che non arrivano, dei politici che si sono mangiati la Sanità. Intanto la febbre è scesa e mai più salirà e il dilemma è sempre lo stesso: essere o non essere, ossia posto o non posto? Mia moglie che è sociale ma non social me lo sconsiglia, e dunque non resisto: la foto scelta è quella della gemella con saturimetro, ma like e forza e coraggio non mi distolgono dal compito principale, guardare, finalmente dentro di me, analizzarmi, sentire il mio corpo, in profondità, ciò che mi accusano di non riuscire mai a fare, fino in fondo, scavare, d’altronde tre sedute dallo psicologo mi sono bastate e avanzate. Insomma quando la pandemia diventa una malattia personale, e fortunatamente nel mio caso, banale, la domanda non è più come ne usciremo. Ora da casa mia provo a capire se ne uscirò, quando ne uscirò, e soprattutto come ne uscirò: né migliore né peggiore, ma probabilmente e tristemente uguale a me stesso.
Gianluca Semprini

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