Il piano inclinato del suicidio assistito (e di chi rinuncia alla zona grigia)

Al direttore - Ella ha ragione nel rilevare che si stanno determinando le condizioni per incidere sul Fiscal compact. Non è immaginabile una revisione del Patto di stabilità e crescita nell’immediato. Ma per i trattati successivi – Two pack, Six pack, Fiscal compact – una riforma non dovrebbe essere così ardua anche perché che li si debba rivedere, mutato radicalmente il quadro macroeconomico in cui sono stati concepiti, lo sostengono molti, a cominciare da esponenti della stessa Commissione e, poi, perché non bisogna dimenticare che in sede scientifica si sostiene autorevolmente l’illegittimità del Fiscal compact che è un accordo intergovernativo confliggente con i trattati fondativi. Allora, piuttosto che limitarsi a operare per elasticizzarlo, riterrei più importante agire per riformarlo o, addirittura, superarlo, ovviamente ricercando le necessarie convergenze in un contesto in cui la crescita economica continua a indebolirsi e la Germania rischia la recessione. Se non ora, quando? Le politiche prudenti che debbono adottare quei paesi che hanno un alto debito, come Draghi sostiene, a fronte dell’agire tempestivo che spetterebbe, invece, ai paesi con spazi fiscali, non è detto che sarebbero alterate da una seria revisione dei trattati in questione perché resterebbero pur sempre in vigore il Patto suddetto e una serie di altri accordi applicativi. Insomma, non sarebbe, una riforma quale qui si auspica, un fattore destabilizzante di un corretto rapporto tra politica monetaria e politica economica e di finanza pubblica, ma potrebbe dare un importante impulso alla crescita e agli investimenti.

Angelo De Mattia

  

Il punto non è se sia giusto o no fare di tutto per ottenere più flessibilità o per rendere più flessibili i trattati (il Fiscal compact, per come è costruito, non deve essere cambiato, deve essere adattato). Il punto è cosa fare con quei soldi. E se quei soldi verranno utilizzati per stimolare crescita e consumi, sarà un progresso. Se quei soldi verranno utilizzati per stimolare assistenzialismo e populismo, sarà un disastro. Meglio non fare sciocchezze.


 

Al direttore - Sembra che Berlusconi non abbia un alibi per le Idi di marzo del 44 a.C.

Michele Magno


  

Al direttore - In merito all’articolo dal titolo “Più Pd e meno Di Maio. Il grillino Presutto sogna la svolta M5s”, pubblicato il 26 settembre dal Foglio a firma di Valerio Valentini, occorre precisare quanto segue. Il titolo fornisce una notizia del tutto destituita di fondamento. Il sottoscritto, infatti, non ha mai detto al giornalista “più Pd e meno Di Maio”, come invece testualmente riportato nel titolo. E che lo stesso titolo sia una mera montatura, del resto, è provato dal fatto che nel contenuto nell’articolo non è mai riportato il suddetto virgolettato. La notizia è pertanto falsa. Non corrisponde al vero nemmeno il passaggio dell’articolo secondo il quale avrei detto che il gruppo M5s al Senato avrebbe chiesto una modifica del regolamento del gruppo per rendere deliberante l’assemblea. Ho invece semplicemente detto che la raccolta delle firme dei senatori ha il solo scopo di indire un’assemblea. Nell’attesa di un suo gentile riscontro porgo cordiali saluti.

Vincenzo Presutto, senatore M5s


 

Al direttore - In questi giorni non c’è giornale, commentatore, osservatore che, a proposito della sentenza della Corte sul suicidio assistito, non attacchi la politica, rea di essere in ritardo, di non decidere, di lavarsene le mani. D’altro canto attaccare la politica e le istituzioni è lo sport nazionale, il modo più semplice per catturare un applauso e per lavarsi le coscienze. Anche in casi come questi in cui non ce n’è alcuna ragione. Perché è bene ricordare che una disciplina sul fine vita il Parlamento l’ha approvata, dopo una discussione decennale, non più tardi di due anni fa, con la legge sulle disposizioni anticipate di trattamento, un testo equilibrato, avanzato, che tra le altre cose ha regolamentato il diritto al rifiuto dell’accanimento terapeutico, unitamente alla possibilità della sedazione palliativa profonda. La politica aveva deciso che quello fosse il compromesso più avanzato, e aveva espressamente deciso di non aprire alla liceità di trattamenti eutanasici, respingendo alla luce del sole emendamenti che andavano in quella direzione. Quindi il Parlamento il suo dovere lo aveva fatto, una legge c’era già, e da molti tra cui il sottoscritto era considerata un’ottima ed esaustiva disciplina sul fine vita. L’anno scorso la Corte costituzionale ha deciso che no, che di fatto quella legge non fosse sufficiente, con una decisione che concedeva al Parlamento esattamente 10 mesi per intervenire ulteriormente, in particolare sul suicidio assistito. Una decisione inedita, un apprezzabile tentativo di instaurare un principio collaborativo tra istituzioni, con il solo limite di 10 mesi che rappresenta un tempo davvero esiguo per chi conosce i meccanismi di funzionamento della nostre Camere, tanto più per decidere su una materia così delicata su cui, peraltro, il Parlamento aveva appena legiferato. E perché solo 10 mesi e non, che so, 18 o 24 o 36? Perché dal mese prossimo scade il mandato di un giudice, e la Corte costituzionale voleva essere sicura di decidere nella stessa composizione. Si poteva approvare comunque una legge in soli 10 mesi? Lo possono credere solo i commentatori e i giornali che semplificano, che hanno la verità in tasca, che vendono certezze assolute, che giudicano la materia all’insegna del binomio banale e superficiale libertà contro vincoli, progresso contro oscurantismo, ignorando la complessità, le questioni etiche e antropologiche che la questione si porta dietro. Accusare dunque di inerzia colpevole la politica in questo caso a me pare davvero l’ennesimo esempio di un mediocre dibattito pubblico che si alimenta di una costante e deleteria delegittimazione delle istituzioni.

Alfredo Bazoli, deputato del Pd

  

Caro onorevole, il punto oggi però non è più se ci sia una latitanza o meno della politica. Il punto, forse, è proprio l’opposto. E’ ragionare sul fatto che fare una legge che segua le indicazioni della Consulta significa portare l’Italia su un piano inclinato. E una volta messo da parte il principio dell’intangibilità della vita, il rischio di scivolare rapidamente in direzione di una pratica sociale di eutanasia come soluzione dei problemi della vecchiaia, della solitudine e dell’infelicità è un rischio concreto. Non si tratta dunque di fare di tutta un’erba un fascio ma si tratta di capire che legiferare rinunciando alla zona grigia oggi significa prima di tutto questo. Sarebbe bene pensarci su.

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