Ragioni giuste per prosciogliere Carola Rackete. Sul manifesto di Calenda

Le lettere al direttore del 3 luglio 2019

Al direttore - Prima gli italiani (avevano incarichi europei).

Giuseppe De Filippi

 

Al direttore - Il linguaggio sguaiato del ministro dell’Interno accresce l’isolamento dell’Italia sulla scena europea e nel caso di Sea Watch 3 rende difficile una riflessione seria su come sono andate le cose e sulla lezione da trarre. Aiutano a ricostruire la vicenda la lettera al governo italiano del segretario di stato olandese per l’Immigrazione, il verbale di sequestro della barca da parte della Guardia di finanza, le parole del procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio che ha ricordato che “non c’era uno stato di necessità per decidere di forzare il blocco da parte del comandante della Sea Watch perché i naufraghi erano assistiti e medicati”. Sotto le coste libiche la Sea Watch preleva, la mattina del 12 giugno, 53 persone dagli scafisti; il 13 giugno li sottrae alla marina libica considerato il porto di Tripoli un luogo non sicuro per le persone soccorse e fa rotta su Lampedusa malgrado alle 19 del 13 giugno il Viminale abbia notificato il divieto di ingresso. La Sea Watch arriva fino a 16 miglia da Lampedusa tra il 13 e il 14 giugno, intanto il governo italiano a seguito di una ispezione a bordo consente lo sbarco di 10 persone, tre nuclei famigliari e donne incinte ma notifica un nuovo provvedimento di divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane. Quando la situazione sembra evolvere faticosamente verso una soluzione ragionevole con la disponibilità finalmente espressa di alcuni paesi dell’Ue ad accogliere gruppi di migranti, Carola Rackete comandante della Sea Watch forza la mano, entra nelle acque territoriali italiane, punta con una manovra spericolata su Lampedusa rischiando di schiacciare la motovedetta della Guardia di finanza contro la banchina. Perché non attende che si perfezioni la complessa intesa per il ricollocamento dei migranti? Perché non tiene conto della decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha respinto la richiesta di attraccare in un porto italiano? Perché Sea Watch ha scelto l’Italia per la sua prova di forza e non la Tunisia, la Grecia, Cipro, la Corsica, Malta, Marsiglia, Cannes? Perché, come dice il governo olandese, smentendo Carola Rackete, la Sea Watch non ha chiesto di sbarcare nel “porto olandese di competenza”? C’è qualcosa di irrazionale nei comportamenti della Rackete. Prima o poi si capirà. Probabilmente Sea Watch punta su Lampedusa perché in Italia c’è un ministro che con la sua sostanziale inconcludenza fa il male dell’Italia. Con il suo linguaggio fornisce alibi sia a chi si sottrae alle regole e alle convenzioni internazionali sia a una comunità europea ampiamente inadempiente. Questo è il vero dramma: un’Europa che condizionata dall’egoismo dei governi nazionali non è stata in grado di dotarsi di una politica comune per l’immigrazione. Su come affrontare questo problema l’opposizione dovrebbe farsi sentire. Dimostrando con le sue proposte che c’è una strada diversa rispetto a quella di Salvini. Più che recarsi a bordo delle barche sarebbe questo il compito del Pd e dei suoi parlamentari. Forse sarebbe anche il caso di non evocare la tragedia di Sofocle: Antigone sapeva che Creonte l’avrebbe condannata a vivere il resto dei suoi giorni in una caverna, murata viva. Rischi del genere, Carola Rackete, malgrado il truce Salvini, non ne correva.

Umberto Ranieri

   

La disobbedienza civile c’entra e non c’entra nella storia di Carola Rackete. La comandante non è entrata nelle acque territoriali italiane solo per violare le regole italiane ma è entrata nelle nostre acque territoriali prima di tutto per far rispettare le regole universali del diritto del mare, fissate dalla Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (Solas), firmata a Londra nel 1974, dalla Convenzione sulla ricerca e il salvataggio marittimo (Sar), firmata ad Amburgo nel 1979 e dalla Convenzione dell’Onu sul diritto del mare (Unclos), firmata a Montego Bay nel 1982. Sulla base di questi princìpi, negare l’attracco di una nave che ha salvato persone in mare costituisce una violazione di queste tre convenzioni. E sulla base dell’articolo 54 del codice di procedura penale, non essendo punibile “chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”, Carola Rackete, sempre che non si voglia considerare una manovra sbagliata come un atto di guerra, ha il diritto di essere prosciolta. Grazie della lettera.


 

Al direttore - Nel manifesto di Carlo Calenda su liberalismo e dintorni si ha quasi la sensazione che venti anni fa Bettino Craxi fosse morto in un incidente d’auto… Anzi, parrebbe addirittura che guidasse senza patente, visto che a Bad Godesberg erano stati più visibili i saragattiani dei nenniani e visto che Craxi l’invito ad andare a Bad Godesberg lo aveva rivolto ai berlingueriani della sua generazione e non ai liberali. Come liberale, Calenda ci tiene a dare più importanza a Marchionne che a Croce. Legittimo, ma azzardato. Non può esserci oggi un “patronage” del Pd sui liberali, popolari e socialisti fuori dai giochi. Così come è sempre stato odioso quello rivendicato dal vecchio Pci sugli “indipendenti” di una volta.

Luigi Compagna


   

Al direttore - Che ci sia da mettere mano alla cassetta degli attrezzi per aggiustare e ammodernare la visione liberale di un progetto politico vincente mi pare assolutamente corretto. E lo sforzo di Calenda va condiviso e supportato. Mette in campo delle idee e senza idee buone nemmeno in politica si va lontano. Il vento soffia forte e non è un buon vento. L’avere sottovalutato le sofferenze della transizione è un punto che Calenda segnala da tempo e in quella sottovalutazione si sono infilati in molti. Resto però convinto che la prima cosa da fare sia resistere e rovesciare lo storytelling negativo che ha prevalso. Se lasciamo correre l’idea che istituzioni liberali e globalizzazione siano la causa unica e dominante di questa situazione non solo abbiamo già perso, ma non vedo su quali pilastri si possa ricostruire. Piuttosto c’è da discutere su come condividere e governare i vantaggi indubbi di globalizzazione e innovazione. Alcune cose Calenda le indica con chiarezza. Istruzione in primo luogo, pubblica e privata. Governo dell’immigrazione. Europa. Controllo dei nuovi monopoli della new economy. Senza dimenticare le caratteristiche e le differenze negative del caso Italia. Quasi tutti gli altri nell’area Ocse stanno molto meglio di noi. Ci sarà una ragione.

Chicco Testa


   

Al direttore - E’ fuorviante considerare “Rivoluzione immoderata” di Carlo Calenda un manifesto da discutere sul filo del confronto teorico tra keynesiani e hayekiani, o tra liberisti e democratici-liberali. La storia del migliore occidente è il risultato dell’influenza di tutte queste e di altre tendenze che non possono essere elevate a idoli solitari. L’importanza del manifesto è di avere proposto in maniera pragmatica l’interrogativo sul che fare oggi in Italia di fronte al predominio (sociale ed elettorale) del nazionalpopulismo bifronte. Gli effetti perversi della globalizzazione e l’aumento delle diseguaglianze non sono altro che tratti di un’analisi storica per aiutare a meglio guardare il futuro. Quel che, però, più conta in questo momento è l’insegnamento della nostra storia politica. Un partito postcomunista anche se intrecciato con la sinistra cristiana non può aspirare a essere maggioritario di fronte alla destra populista: il suo tentativo di incorporare tradizioni, gruppi dirigenti ed elettorato riconducibili alla liberaldemocrazia è fallito. Va dunque preso atto che v’è una potenziale area elettorale che in passato si riconosceva – e votava –, un po’ socialista riformista o radicale e un po’ liberale o laico con punte anche cattoliche, che oggi non ha rappresentanza. Certo è passato un quarto di secolo e quelle correnti non esistono più. Ma i segmenti della società, dell’economia e della cultura che tengono in conto lo stato di diritto, la difesa della democrazia liberale dalla sfida populista, i diritti individuali e le libertà economiche, l’umanesimo solidale non disgiunto dalla sicurezza, la diffidenza verso i poteri troppo forti senza contrappesi, la distinzione della giustizia dal giustizialismo, l’autonomia della politica senza l’antipolitica, l’apprezzamento per le competenze senza la casta, sono tutti valori e desideri che non hanno corrispondenza politica. Al di là delle etichette, Calenda sembra rivolgersi proprio a questa parte della società (“aperta” ma non buonista o sbracata) senza rappresentanza. La parola non basta, ma può essere un inizio.

Massimo Teodori

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