Mucca assassina

Mariarosa Mancuso
Si chiama “P’tit Quinquin”. E’ demenziale, è francese, è razzista.  Farlo vedere ai nostri campagnoli

    Negli Stati Uniti li chiamano white trash, spazzatura bianca, e siccome sono poverissimi, ma non appartenenti ad altre minoranze etniche o religiose, nessuno si scandalizza. In Francia si chiamano Ch’tis: lo abbiamo imparato da “Bienvenue chez le Ch’tis”, appunto, (in Italia lo conosciamo come “Giù al nord”, prima che la vantata creatività nostrana ne spremesse un doppio remake). Il film di Dany Boon cercò di invertire la tendenza, bonificando i dipartimenti francesi Nord-Pas de Calais. Prima della sua commedia dagli incassi stratosferici, al cinema erano luoghi di miseria e desolazione: “Abbiamo un orfanotrofio, un riformatorio e un manicomio, molti sono stati in tutti e tre”. La vicinanza con il Belgio, altro gran fornitore di storie deprimenti grazie ai fratelli Dardenne, non porta sollievo.

     

    Ch’tis – dalla pronuncia della “s” che diventa “sc” come in scemo del villaggio – è “P’tit Quinquin”, titolo di una ninna nanna ottocentesca e della serie diretta per Arté da Bruno Dumont. Altro regista che si aggira in quei luoghi senza trovarci nulla di leggiadro perché non c’è, vale sempre la tripletta orfanotrofio-riformatorio-manicomio. Lo salva il senso del sacro, che i Dardenne non possiedono, se non si allontana troppo da casa (è nato a Bailleul nel 1958): “Twentynine Palms”, ambientato nel deserto californiano, sta nella lista nera dei film più spernacchiati a Venezia.

     

    Nell’ambiente che gli è congeniale, e nelle quattro puntate della serie (presentate a Cannes, e poi al Torino Film Festival, già si parla di una seconda), Bruno Dumont combina una commedia grottesca e una bizzarra indagine di polizia. Il villaggio è sinistro come Twin Peaks, Romeo e Giulietta son ragazzini come devono essere, lui è un teppista con la bocca sempre storta in una smorfia, e se butta i petardi dentro casa è perché ha preso dai nonni: due che apparecchiano la tavola lanciando bicchieri e stoviglie sul tavolo. Il gendarme che segue il caso sembra essere stato a scuola di polizia dall’ispettore Clouseau, non riesce a stare fermo con le sopracciglia. Fa coppia con lui un sottoposto che non sa guidare tanto bene, e però non vede l’ora di fare acrobazie su due ruote sullo sterrato (le due ruote dell’automobile di servizio, non è che intende comprarsi la moto).

     

    La prima scena stabilisce il tono, con gran rispetto per lo spettatore (che ha il diritto di divertirsi subito, mentre gli sceneggiatori italiani temporeggiano: “Il personaggio si svilupperà nelle puntate successive”) e con poco rispetto per Federico Fellini. In “La dolce vita”, l’elicottero trasportava un Cristo dai Castelli Romani al Vaticano, sorvolando periferie e cantieri. Qui l’elicottero tira fuori da un bunker della Seconda guerra mondiale una mucca pezzata. Come è arrivata lì? Non si sa, certo non c’è entrata da sola. Chiamano il contadino per identificare la bestia sporca di sangue umano, nella pancia quel che resta del cadavere di una donna.

     

    Per i ragazzini che hanno appena cominciato le vacanze scolastiche, la promessa di un’estate meno noiosa delle altre. Per gli spettatori, una promessa di divertimento che sfrutta tutte le forme di comicità: slapstick, demenziale, battutacce razziste. Funerali da piegarsi in due dal ridere ne abbiamo visti tanti nel cinema americano. La provincia francese televisiva li supera tutti: il microfono fa i capricci, il prete è gay, le majorette partecipano con il costume che le insacca come salsicce. Da far vedere, come obbligo scolastico, ai registi e agli sceneggiatori che si sdilinquiscono per la vita campagnola.