
A proposito delle manifestazioni per Gaza
Abbiamo chiesto agli studenti universitari di esercitarsi su un tema complicato ma necessario: come si può manifestare per Gaza senza cadere nell'antisemitismo?
Abbiamo chiesto agli studenti universitari di esercitarsi su un tema complicato ma necessario: come si può manifestare per Gaza senza cadere nell'antisemitismo? Scrivete anche voi, in duemila battute, a situa@ilfoglio.it. I migliori testi degli studenti universitari saranno pubblicati (qui trovate tutti gli articoli degli studenti pubblicati in questi mesi
Le manifestazioni per Gaza non sono strutturalmente antisemite (manca infatti l’intenzionalità diretta antiebraica), sono tuttavia strutturalmente mediocri.
I partecipanti, infatti, non sono mossi necessariamente da intolleranza verso gli ebrei in quanto tali, quanto piuttosto da un sentimentalismo vago e miope, che non è in grado di vedere le conseguenze delle posizioni che esso assume. Esempio calzante è il riconoscimento della Palestina (tutto simbolico e sentimentale, posto che, in diritto internazionale, il riconoscimento non è requisito di statualità). Esso, concretamente, significherebbe solo delegare ad Hamas le attività antisemite, che noi non appoggiamo, ma non impediamo. Una tale disposizione d’animo (che abbiamo recentemente vista espressa in Parlamento da una persona indubitabilmente non antisemita, come il segretario di Azione) non è tanto indice di antisemitismo, quanto lo è di mediocrità, perché “presta il fianco” all’antisemitismo. È questo il modo, fra l’altro, in cui ha costantemente operato l’ONU, ed è significativo notare come le due capitali che sono state divise a metà, dopo la Seconda Guerra Mondiale, sono state Berlino (comprensibilmente) e Gerusalemme. L’antisionismo, più o meno intenso e anche quello inconsapevole, è dunque asservito all’antisemitismo, il quale a sua volta è asservito alla causa antioccidentale. Vale la pena rilevare, infatti, che in questo conflitto l’antisemitismo (anche quello di Hamas) è in realtà un elemento strumentale ad uno scopo più vasto, che è la guerra contro l’occidente (la battaglia di Lepanto si svolse il 7 ottobre). Ragionare in soli termini di antisemitismo è dunque insufficiente a cogliere la portata dei valori in gioco. In questo senso, manifestare per Gaza senza prestare neppure il fianco all’antisemitismo (ovvero, in categorie attuali, all’antioccidentalismo), finché ciò non significherà manifestare propriamente per Israele, è semplicemente impossibile.
Pierfranco Di Zio
studente di giurisprudenza Luiss
Questo fine settimana torneremo a manifestare per chiedere un cessate il fuoco immediato a Gaza e fermare le uccisioni di civili. Si tratta di proteste mosse da un forte senso di solidarietà e da un’urgenza umanitaria: migliaia di morti, interi quartieri distrutti, vite spezzate sotto i bombardamenti. Tuttavia, ogni volta che si scende in piazza, soprattutto per una causa così complessa e dolorosa, è fondamentale farlo con consapevolezza. La prima regola è distinguere sempre tra la politica di un governo e l’identità di un popolo. Criticare le scelte militari del governo israeliano, denunciarne le violazioni del diritto internazionale e chiedere la fine della guerra è legittimo. Ma questo non deve mai tradursi in attacchi o colpevolizzazioni nei confronti dell’intero popolo ebraico, come è invece accaduto in alcune manifestazioni, dove si sono visti cori o striscioni che hanno trasformato la solidarietà in rabbia generalizzata. Per rendere queste manifestazioni efficaci e responsabili, serve cura nell’organizzazione: coinvolgere voci diverse come attivisti, studiosi e rappresentanti delle comunità può aiutare a mantenere il focus sui diritti umani. Scegliere slogan chiari, simboli non divisivi e prese di posizione esplicite contro ogni forma di antisemitismo è fondamentale per non tradire lo spirito della protesta. Le piazze devono essere luoghi di pace, non di semplificazioni ideologiche. Ogni manifestazione dovrebbe dichiarare con chiarezza il proprio rifiuto di ogni forma di antisemitismo e razzismo. Difendere i civili palestinesi significa in questo contesto affermare che tutte le vite hanno lo stesso valore e che ogni popolo ha diritto alla sicurezza e alla pace. La richiesta di giustizia, per essere tale, deve basarsi su equilibrio, lucidità e rispetto per tutte le vite coinvolte.
Aurora Forlivesi
studentessa di LM COMPASS (curriculum giornalismo e comunicazione politica) dell’Università di Bologna
È di qualche giorno fa la notizia del vandalismo al murale realizzato da AleXsandro Palombo raffigurante Liliana Segre ed Edith Bruck che, vestite con un pigiama a righe, impugnano una bandiera israeliana. L’apparizione di scritte “Free Pal” e “Palestina libera” è bastata a scatenare voci contro un presunto antisemitismo derivante da questa deturpazione. Di fatto, però, solo di vandalismo si potrebbe parlare, ma nulla di più. Vandalismo per aver compromesso un’opera contro l’antisemitismo, ma senza che dalle frasi scritte discenda un attacco alla comunità ebraica. Quindi l’antisemitismo qual è? E se c’è, dov’è? Le scritte “Free Pal” possono essere messe sullo stesso piano delle frasi propriamente antisemite? Vi è una palese confusione di fondo. Piuttosto, la domanda dovrebbe essere un’altra: perché protestare per Gaza significherebbe essere antisemiti? Perché la legittima condanna verso il governo israeliano dovrebbe bastare per scivolare nell’antisemitismo? Più precisamente, perché dalle critiche politiche a un governo si arriverebbe alla cultura ebraica? E queste domande valgono per tutti, sia per coloro che dalle azioni del governo israeliano attaccano la comunità ebraica nel mondo, sia per quanti, criticando liberamente l’esecutivo israeliano, vengono tacciati di antisemitismo. In definitiva, dalle azioni di un governo – di per sé limitato nel tempo – non dovrebbero discendere colpe a un popolo, tanto più se quel popolo non è unito sul giudizio su chi lo rappresenta. In entrambi i casi, dunque – essere definiti antisemiti perché critici oppure attaccare la comunità ebraica per ragioni politiche – si genera un cortocircuito logico. Insomma, per non scivolare nell’antisemitismo, è opportuno risolvere questo impasse: la critica all’esecutivo israeliano non è antisemitismo se resta sul piano politico. Lo diventerebbe se si trattasse di un attacco contro l’identità religiosa o culturale ebraica. La via è la cura del linguaggio, distinguendo con rigore i piani.
Pierpaolo Carmine Beccarisi
studente Luiss, magistrale in Governo, Amministrazione e Politica
Protestare contro il conflitto sulla striscia di Gaza implica l’interiorizzazione di valori quali la pace, il rispetto e la non-violenza; il termine rispetto dovrebbe far scoccare una scintilla di buon senso, che renda il singolo in grado di scindere l’aberrazione della violenza sul territorio palestinese, esplicitata tramite la lotta politica, da atteggiamenti discriminatori in funzione anti-ebraica. Le morti civili a Gaza devono essere denunciate da chi gode del privilegio di poter ‘vivere’ nel significato più autentico del termine e non sia la vittima casuale di un conflitto non casuale, ma simbolo di una piaga che ha perturbato quasi un intero secolo di storia. Se manifestare contro la sanguinosa politica israeliana può essere interpretato come gesto anti-sionista, questo non può permettersi di cadere nel contraddittorio e sfociare in prese di posizione antisemite. Protestare implica dunque opporsi ai principi sionisti, e a una discriminazione che si traduce nella feroce campagna anti-palestinese e nella concessione di diritti esclusivi agli ebrei israeliani, demonizzando i non ebrei. La violenza in Palestina deve avere fine per nullificare azioni che renderebbero l’umanità fautrice di un’auto-estinzione; nello specifico, qualunque atto di protesta che perori la causa non può imperniarsi su un odio che trascende la crudeltà disumana del conflitto e tenta la sovrapposizione erronea dei termini ‘Israele’ e ‘ebraismo’, che si manifesta nell’insulto alla religione e designazione di un capro espiatorio cui attribuire ogni tipo di male. Le società che elevano la libertà a linfa della propria esistenza devono dunque incaricarsi di affossare la violenza quale strumento così becero e primordiale per auto-determinarsi. Se l’umanità davvero tendesse al progresso e all’evoluzione, l’individuo aborrirebbe la ricerca di una ‘specie superiore’ e si mobiliterebbe al fine di rendere il ‘mondo’ la patria di persone diverse ma fondamentalmente uguali, che respingono l’arma quale propaggine di se stessi e cercano nel proprio io la risoluzione diplomatica allo scontro con l’altro.
Alice Di Terlizzi
bachelor in International Politics and Government, Università Bocconi
Per non prestare il fianco a sentimenti o derive antisemite occorrerebbe anzitutto avere ben in mente il fatto che, ad oggi, un problema di antisemitismo sussiste e che, in una piattaforma che miri a trattare un tema così straziante come il dramma civile dei gazawi, non può non esserci un chiaro e solidale riferimento anche a quest’altro tema fondante della vicenda israelo-palestinese.
La vile carneficina di Gaza è una disgrazia tanto quanto lo è il riemergere in tutta Europa – e non solo – di un fenomeno che si riteneva cessato negli scorsi decenni o, nella peggiore delle ipotesi, notevolmente attenuato.
Unità e comunanza di intenti, perciò, sarebbero stati i requisiti d’obbligo per una manifestazione unica, senza strumentalizzazioni, capace di sensibilizzare e di condannare gli atti criminali che si compiono da entrambi lati: un’imprescindibile condanna ai terroristi di Hamas che trafugano cibo e risorse di prima necessità, per ridistribuirle ai civili in porzioni ancora più minute e sulla cui generale indifferenza alla causa palestinese troppe poche parole si spendono; un’imprescindibile condanna alla deriva criminale di Netanyahu e dei suoi ministri che bombardano ed affamano sine die una popolazione costretta a spintonare persino per un tozzo di pane.
Certo, bisognerebbe riportare alla memoria che Israele dal 1977 non è più la stessa, è in parte malata. In quell’anno, per la prima volta nella storia dello Yishuv, vinceva le elezioni il Likud di Menachem Begin, un partito di destra estrema che avrebbe governato, praticamente senza soluzione di continuità, fino ad oggi. È da lì in avanti, a causa delle politiche colonialiste ed ultraortodosse del Likud – oltre che dei laburisti costretti ad inseguire –, che è iniziato un processo di radicalizzazione della società civile israeliana, portando grosse fette dell’opinione pubblica a sostenere le scellerate politiche di questi governi.
Eppure, avrebbero aiutato anche generali nozioni di storia di Israele per non confondere Netanyahu con la Knesset, con alcune grandi voci giornalistiche come il The Jerusalem Post o Haaretz né con la società civile israeliana tutta. Netanyahu non è Israele né rappresenta la sua storia.
Se tutti questi concetti fossero stati punti inderogabili di una manifestazione comune staremmo parlando di minor rischi sul tema posto; invece, si è scelta la via della propaganda di partito e della strumentalizzazione: il veto posto dai leader di AVS e M5S a Calenda e Renzi ne è schiacciante prova – escludo il Pd dal ragionamento perché come da norma, partecipando ad entrambe le manifestazioni, si condanna all’irrilevanza di chi è incapace di esprime una posizione unitaria.
Fabio Sinisi
corso magistrale di Scienze storiche in Sapienza
La questione mediorientale si presenta oggi come un disastro dal punto di vista umanitario. Al di là dei tecnicismi giuridici, ciò che conta sono i fatti: la distruzione sistematica delle abitazioni palestinesi, il blocco di acqua e viveri, e persino i colpi sparati sulla folla durante la distribuzione degli aiuti. Tutto questo getta un’ombra sempre più cupa su quella che è “l’unica democrazia del Medio Oriente”.
La democrazia, per quanto resti, come ricordava Churchill, il peggior sistema a eccezione di tutti gli altri, non può sottrarsi al giudizio di piazza.
Il terrorismo di Hamas, che ha ucciso civili e continua a trattenere gli ostaggi, va condannato senza se e senza ma. E con la stessa determinazione, va denunciata l’azione militare del governo Netanyahu, sproporzionata e devastante, che ha provocato migliaia di vittime e reso invivibile la Striscia. Una risposta cieca, guidata più dal panico che dalla strategia, come se Israele si sentisse di troppo nella sua stessa terra.
Ed è qui che emerge l’elefante nella stanza: il problema non è l’ebraismo, né l’identità ebraica, ma l’attuale governo israeliano e le sue scelte. Confondere critica politica con odio religioso è un errore pericoloso. Israele è nato anche dal dolore della Shoah, da un popolo perseguitato e sopravvissuto all’indicibile. Dimenticarlo significa disumanizzare.
Le critiche devono essere laiche, fondate sul rispetto della dignità umana e del diritto internazionale. Ma oggi, in un contesto pubblico sempre più polarizzato, mi spingo a dire dicotomico, la complessità viene scambiata per ambiguità. Eppure, è possibile, anzi, necessario, riconoscere che errori e atrocità sono stati commessi da entrambe le parti.
Chi manifesta ha oggi una responsabilità profonda: isolare ogni rigurgito antisemita, evitare slogan generalizzanti, distinguere tra governanti e governati. Coinvolgere voci ebraiche contrarie alla guerra rafforza il messaggio di pace. Perché dire “Palestina libera” non deve mai voler dire “contro gli ebrei”. La protesta è un diritto. Ma quando si fonda sulla verità, sulla storia e sulla dignità di ogni essere umano, diventa anche un dovere.
Davide Castelli
università degli studi di Milano