
Matteo Renzi (foto Ansa)
La situa - dibattiti universitari
Opposizioni unite alle elezioni? Idee a partire dall'idea di Renzi
Abbiamo chiesto agli studenti universitari cosa ne pensano dell'idea, lanciata da Renzi, legata al prossimo vero referendum, non quello dell'otto giugno, ma quello delle prossime politiche
Abbiamo chiesto agli studenti universitari cosa ne pensano dell'idea, lanciata da Renzi, legata al prossimo vero referendum, non quello dell'otto giugno, ma quello delle prossime politiche. Renzi sostiene che le opposizioni, senza fronzoli, devono andare tutte insieme. Ha ragione? Gli universitari ci hanno scritto, scrivete anche voi, in duemila battute, a situa@ilfoglio.it. I migliori testi degli studenti universitari saranno pubblicati (qui trovate tutti gli articoli degli studenti pubblicati in questi mesi)
L’idea di Matteo Renzi di un’alleanza anti-Meloni che comprenda anche Giuseppe Conte è l’ennesima conferma della crisi del pensiero strategico nella politica italiana. Più che una proposta politica, sembra un riflesso pavloviano: un centro che, non sapendo costruire un’identità autonoma e frammentandosi dall'interno, cerca riparo nell’emergenza. Eppure, l’urgenza di “battere le destre” non può giustificare ogni contraddizione. Unirsi a Conte per fermare Meloni equivale a negare la ragion d’essere del centro riformista. I neogrillini hanno espresso, negli anni, una cultura politica giustizialista, antieuropea e spesso anti-industriale, incompatibile con ogni progetto liberaldemocratico. La convergenza tattica può forse portare qualche seggio in più, ma al prezzo di dissolvere ogni coerenza, per non parlare di quanto poco esecutivo sarebbe un esecutivo dai mille colori (la storia politica recente parla da sè). Non è un caso che ogni esperimento di “campo largo” abbia prodotto stalli, ambiguità e sconfitte. Il paradigma delle elezioni-referendum è poi un errore analitico prima che politico. Significa accettare la centralità dell’avversario, legittimarla come perno del sistema. La politica si riduce così a una reazione, anziché a una proposta. E in assenza di visione, è la leader di Palazzo Chigi a dettare i confini del confronto. Chi ambisce a costruire un’alternativa credibile non può rincorrere scorciatoie emotive. Serve un lavoro lungo, impopolare, fatto di cultura politica e non, di classi dirigenti all'altezza e di parole nuove. La scorciatoia del fronte comune è, ancora una volta, un modo per rimandare quella fatica.
Luigi Rossi
laureando in Scienze Politiche e futuro studente magistrale Luiss di Relazioni internazionali
Il centro liberaldemocratico italiano appare sempre più dilaniato e scomposto. I suoi leader, segretari e presidenti di partito, segnati da risultati tutt’altro che positivi alle ultime elezioni europee, stanno rilasciando dichiarazioni che ci fanno capire di tutto, fuorché un posizionamento comune. Tantomeno una strategia realmente orientata a conquistare una futura rappresentanza parlamentare significativa o, ancora più ambiziosamente, a proporsi come credibile alternativa di governo. Siamo alla scissione dell’atomo.
Il senatore Matteo Renzi, nell’intervista rilasciata a Maurizio Crippa su Il Foglio di lunedì, ha affermato che, chiuso questo quinquennio di governo, il presidente del Consiglio e l’intera maggioranza verranno giudicati dal popolo italiano votante, e ha rinnovato la sua disponibilità ad allearsi con il M5S, alludendo al campo largo. Una dichiarazione che lascia intendere, da parte del leader di Italia Viva, una lettura delle prossime elezioni meno come il confronto tra partiti politici — l’elemento ordinario in una democrazia pluralista e ben ordinata — e più come una sorta di stress test sul gradimento del governo Meloni e della maggioranza che lo sostiene. Un’impostazione che rischia di snaturare il senso stesso delle elezioni politiche, riducendole a un referendum sulla premier e svuotandole della loro funzione originaria: la competizione elettorale fatta di idee, scelte e leadership, dalla politica estera alla questione dei dazi, passando per la giustizia e le riforme economiche.
Sulla scelta di schieramento è molto cambiato rispetto a quanto conoscevamo. È un Renzi ben diverso da quello raccontato da Giuliano Ferrara in Il Royal Baby: pieno di sogni, visioni e sistematicamente avverso ai 5 Stelle. E tuttavia, qui comprendo la sua posizione dettata dalle circostanze, pur non appoggiandola: l’ambizione di far sentire la propria voce è legittima, in un sistema elettorale che premia le alleanze. Anche se non la condivido, posso comunque spezzare una lancia in suo favore.
Ma vengo al punto: questo fantasioso campo largo, diviso su tutto e unito su nulla, è davvero ciò di cui l’Italia ha bisogno? Tra chi vorrebbe radere al suolo il Jobs Act e chi, al TG1, lo definisce ancora come “una vittoria”; tra chi fa grandi annunci di tavoli negoziali in Ucraina per cessare le ostilità e chi, invece, vota e comizia per l’invio dei rifornimenti militari. L’impressione è quella di una coalizione non coesa, priva di fondamenta solide, che inevitabilmente premierà di nuovo il centrodestra, il quale, nei sondaggi più freschi, vanta un distacco percentuale di oltre venti punti.
Davide Castelli
Università degli studi di Milano, facoltà di scienze politiche
“Per vincere l’opposizione deve andare unita”, come dare torto a Renzi? Alla fine si tratta di semplici calcoli matematici. Tuttavia questa affermazione dovrebbe farci interrogare sul vero obiettivo dei partiti politici: vincere le elezioni o formare una maggioranza di governo in grado di guidare stabilmente l’Italia?
Se il primo caso dovesse prevalere sul secondo, vedremmo un Campo Largo, anzi larghissimo, in disaccordo su tutto, fondato su un solo punto comune: il dissenso con la Destra. Costruire un’alleanza che veda l’ex Terzo Polo unito al Movimento 5 Stelle significa dare vita ad una pentola a pressione pronta ad esplodere. Insomma, il risultato sarebbe un miscuglio di politici pro-Ucraina e di finti pacifisti, di posizioni cosiddette militariste e antimilitariste, di visioni europeiste e antioccidentali; in campo energetico vedremmo litigi tra chi vuole il nucleare e chi è contro, mentre all’ordine del giorno ci sarebbero le frecciatine per ricordare i miliardi sprecati nel Superbonus e nel Reddito di Cittadinanza.
Un fattore non trascurabile spaventa ulteriormente: ad agire come mediatore principale tra l’ex Terzo Polo ed il Movimento 5 Stelle dovrebbe pensarci il Partito Democratico, una forza politica molto rilevante, che però oggi soffre più che mai di enormi divisioni interne. Tra progressisti e riformisti, il partito guidato da Elly Schlein è il primo a necessitare di una seria operazione di riconciliazione.
La situazione appena descritta si potrebbe davvero definire una vittoria contro la Destra? O si tratterebbe solamente di un’interruzione del Governo Meloni attraverso una scoordinata ammucchiata? Non rischierebbe di danneggiare ancora di più la credibilità della Sinistra?
“Le alleanze si fanno con i diversi”, è vero, ma solo se essi trovano punti di incontro e riescono a cooperare in modo razionale e utile alla nazione, altrimenti tali alleanze sono solo scudi ideologici facilmente attaccabili. Chiedere all’elettorato di avere fiducia in una coalizione così variopinta non può che regalare i voti degli italiani ai partiti di destra, che sia nel breve o nel lungo termine. È una questione di realismo.
Samuele Braguti
studente di Mediazione Linguistica e Culturale all’Università degli Studi di Milano
Le prossime elezioni saranno, di fatto, un referendum su Giorgia Meloni. Lo ha affermato Matteo Renzi, lanciando un segnale politico netto: per sfidare davvero la premier serve un’alternativa solida, ampia e credibile. Anche a costo di allearsi con ex avversari come Conte. Una scelta importante, che però apre una domanda seria: unire forze così diverse è davvero possibile e utile?
Renzi ha ribadito un principio che in politica ha spesso fatto scuola: le alleanze si fanno con i diversi. È un ragionamento pragmatico, che trova precedenti in quasi tutte le esperienze di governo della Seconda Repubblica come l’Ulivo, unione di culture politiche distanti tra loro, ma capace di offrire una visione di Paese alternativa alla destra.
Tuttavia, nel campo dell’opposizione attuale il quadro è più complicato. Renzi non ha mai nascosto le critiche a Giuseppe Conte e al Movimento 5 Stelle, soprattutto su temi come il reddito di cittadinanza o la gestione della pandemia.
Dire che le prossime elezioni saranno un “referendum su Meloni” significa che l’attuale premier sarà il perno dello scontro politico. Non solo perché guida il governo, ma perché è diventata il volto simbolico di una destra che governa quasi incontrastata. Dunque, in uno scenario così polarizzato, l’opposizione non può permettersi di dividersi ulteriormente.
Per questo motivo, serve una proposta solida con un programma politico chiaro, anche se naturalmente tutto ciò non è semplice. Le coalizioni non sono fusioni, ma alleanze tra identità diverse, che si mettono insieme per raggiungere un obiettivo comune, cioè sfidare un governo che oggi, in assenza di una vera opposizione unita, continua a rafforzarsi.
Allora sì, un’alleanza tra diversi come Renzi e Conte, potrebbe avere senso. Ma solamente se fondata su obiettivi concreti e una visione comune. Altrimenti il rischio è quello di presentarsi agli elettori come un’unione fragile, costruita solo per battere Meloni.
Aurora Forlivesi
studentessa di LM COMPASS (curriculum giornalismo e comunicazione politica) dell’Università di Bologna
Mi limito a due semplici considerazioni. La prima è di natura disincantata e realista, di chi seguendo la politica più o meno dalla comparsa sulla scena nazionale dell’ex Presidente del Consiglio Renzi, non può che chiedersi se dietro a simili “appelli all’unità” non ci sia l’intento di ottenere qualcosa per sé, dato che ho smesso da un pezzo di chiedermi se i politici e non solo agiscono senza aspettarsi un minimo di tornaconto o vantaggio personale. Anche se devo confessare che spesso sentendoli parlare fatico a credere che non credano a quello che dicono, certo per quanto strampalato, inefficace, totalmente inutile e magari spaventosamente costoso sia ciò che esce dalle loro bocche. Non lo so, per quanto li ritenga bugiardi, inaffidabili e ipocriti al tempo stesso penso che un minimo di etica della convinzione la possiedano ancora, solo con uno questo dubbio non mi sovviene mai, solo con uno dei politici, sul proscenio da anni si intende, non ho di queste esitazioni: Matteo Renzi. Tanto che quando lo sento parlare dell’assoluta necessità della grande coalizione anti-Meloni, non posso, non riesco a non domandarmi “vuole qualcosa per sé?” e subito dopo essermi dato delle risposte, ecco che l’unica domanda è “a quando?”. A quando il ritorno agli ovili, uno è ovviamente il Pd e l’altro altrettanto verosimilmente è il Senato della Repubblica; poi dato che il ritorno al primo è funzionale per tornare al secondo, immagino che lo sciogliersi dolcemente nel Pd possa avvenire prima delle elezioni. La seconda considerazione è più di natura politica, nel senso che l’ho fatta facendo contestualmente lo sforzo mentale di non pensare a una scena da Gattopardo, per cui “bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga uguale”. Quindi mi sono immaginato che a proporre la coalizione di centro-sinistra (spero che agli interessati vada bene sia l’espressione sia il trattino) possa essere qualcun altro, qualcuno che riesca a tenere tutti insieme e che al pari del leader di IV condivida la necessità di porre un argine allo strapotere di Meloni. Eppure anche in questo caso la situazione non mi sembra delle migliori, perché in un caso penso a una coalizione (con grande difficoltà non la sto chiamando ammucchiata) che ha come unico collante quello di essere contro l’avversario, senza un vero programma e dunque una visione del paese, forse uno degli elementi alla base del successo di Meloni; dall’altra una colazione che pur avendo un programma è probabile che finisca per riproporre qualcosa di simile al “governo giallo/rosso che sarà ricordato in secula seculorum per aver regalato al paese il “superbonus”, permettendo alla Meloni di ergersi a falco del rigore sui conti pubblici che è tutto dire. In entrambi gli scenari, Renzi me lo immagino sempre lì, al Senato e sulla poltrona e ecco che siamo tornati al punto di partenza, “all’uomo politico di professione” che torna o meglio rimane dov’è sempre stato. Probabilmente l’interessato mi darebbe del “qualunquista” eppure sono sicuro di non esserci nato, forse lo sono diventato con il tempo ma giuro non tutto da solo.
Pietro Grisotto
studente di Storia dell’Università di Bologna
Io trovo che la dichiarazione di Renzi, contenga per un verso un fondo di verità. Questo governo durerà fino alla fine, salvo imprevisti, anche se sono convinto che sarà così; pertanto, le prossime elezioni saranno indubbiamente influenzate da cosa succederà. Io sono un sostenitore dell’attuale esecutivo, ma bisogna osare e fare di più, insomma fare la destra fino in fondo.
Focalizzandoci, però, sul “campo largo”, ciò che li unisce è l’essere anti-Meloni e basta.
Ci sono troppe divisioni tra loro, ad esempio, per quanto concerne la giustizia, il lavoro e la politica estera. Penso anche che la diversità sia una ricchezza e che non sempre rappresenta un aspetto negativo, ma bisogna saper mettere insieme le diverse anime e fare sintesi.
Sintesi che manca già al Partito Democratico, quando si parla di Ucraina e armi figuriamoci se poi consideriamo un’intera coalizione, lì le contraddizioni aumentano ulteriormente a cominciare da Giuseppe Conte.
Qualora il csx vincesse le elezioni, sarebbe un governo che durerebbe da Natale a Santo Stefano e questo non danneggia chi vota cdx, ma l’Italia intera, che si ritroverebbe con una grande instabilità politica e si riandrebbe nuovamente ad elezioni anticipate.
Le parole di Renzi, allo stesso tempo, mi suscitano rabbia perché non posso accettare che gli italiani vengano presi in giro, dopo che lo stesso Renzi in un libro che ho letto con molto interesse “Controcorrente”, si è ripetutamente vantato di aver mandato a casa Conte, facendo paragoni con il successore (Draghi) e ora vuole tornarci insieme, perché andando da solo non rientrerebbe in Parlamento; con una coalizione, gli basterebbe solo l’1%, con la legge elettorale vigente.
Francesco Gallitelli
studente di Giurisprudenza
Nel dibattito politico italiano si fa spesso finta di dimenticare una verità tanto semplice quanto scomoda: le elezioni non si vincono con la purezza ideologica, ma con le alleanze. È su questo che Matteo Renzi ha centrato il punto nei giorni scorsi, dichiarando che le prossime elezioni saranno un referendum su Giorgia Meloni e che, per batterla, serve un’opposizione unita. Anche con Giuseppe Conte. Parole forti, che fanno storcere il naso praticamente a tutti, dalle bimbe di Conte ai renziani DOC, ma che fotografano con lucidità una realtà che la maggioranza ha già capito da tempo. Meloni governa con Salvini, leader di una Lega postfascista in piena crisi identitaria, e con Maurizio Lupi, erede del moderatismo democristiano più vecchia scuola. Se questo è possibile a destra, perché non dovrebbe esserlo a sinistra o al centro? Renzi non chiede fusioni ideologiche, ma convergenze strategiche. In fondo, le alleanze si fanno “con i diversi” — come lui stesso ha ricordato — e per obiettivi comuni, non per affinità di anime. Nessuno chiede a Carlo Calenda di condividere la visione economica del M5s o a Conte di applaudire il Jobs Act. Ma l’obiettivo di battere Meloni è, o dovrebbe essere, superiore alle reciproche diffidenze. Certo, serve un baricentro. E quel baricentro non può che essere il Partito Democratico. È il PD il vero perno attorno a cui deve ruotare l’accordo: per peso politico, radicamento territoriale e capacità di tenere insieme le anime diverse dell’opposizione. Senza un PD protagonista e inclusivo, nessun fronte largo potrà davvero decollare. La realtà è che un Terzo Polo isolato non ha i numeri per essere decisivo. E il M5S, da solo, non riesce a intercettare quella fetta di elettorato moderato e riformista che ancora non trova casa. Un’alleanza — anche tecnica, anche temporanea — può diventare il grimaldello per restituire all’opposizione un peso concreto. Non si tratta di annacquare le idee, ma di contare. E per contare, oggi, bisogna unirsi. Renzi ha detto ciò che molti pensano e pochi hanno il coraggio di ammettere: o si costruisce un fronte largo e plurale, con il PD al centro, oppure Meloni governerà indisturbata per un decennio. E a quel punto, le battaglie di principio varranno poco.
Gerardo Jr Maccauro
studente di Lettere Moderne alla Sapienza
Le parole di Renzi suonano familiari: pur di evitare una nuova vittoria del centrodestra, propone un’alleanza larga, che includa anche il M5s di Conte. “Le alleanze si fanno con i diversi”, dice, e in linea teorica ha ragione. Ma in pratica, la realtà delle prossime elezioni sarà ben diversa.
L’idea di un fronte unito contro Meloni affascina molti nel centrosinistra. Anche ammesso che Pd, M5s, Iv e Avs si presentino insieme alle urne, come si potrebbero mai accordare sui temi fondamentali?
Certo, una coalizione di volonterosi (se così la vogliamo chiamare) potrebbe anche vincere in un cosiddetto referendum sulla Meloni. Ma come governerebbe? All’interno conviverebbero anime opposte: chi sostiene l’Ucraina e chi simpatizza per la Russia, chi vuole rafforzare l’UE e chi vagheggia un ritorno alla Lira. Quali obiettivi comuni possono esistere tra chi flirta con il sovranismo e chi ne è il principale avversario?
Il punto – o l’obbiettivo – non dev’essere solo vincere ma anche governare. E l’esperienza insegna che la sinistra, quando va al governo divisa, cade in fretta: basti pensare alle scissioni e rotture degli ultimi anni. Fin quando l’opposizione non saprà costruire una sintesi politica vera, capace di superare personalismi e differenze ideologiche, ogni alleanza sarà pura illusione.
Forse il problema non sta solo nella sinistra, ma nel sistema elettorale da lei voluto. Finché resterà il Rosatellum, la strategia sarà sempre coalizionale. Solo un ritorno al proporzionale potrebbe liberare i partiti dall’ossessione per l’unità forzata: se ciascuno corresse da solo, si potrebbero avere governi più coesi, uniti davvero su basi ideologiche e non su artificialità ideologiche quali destra e sinistra.
Tornando al sistema attuale, però, la destra – pur non monolitica – ha imparato a marciare compatta, e se la sinistra vuole tornare competitiva, deve prima imparare a dialogare. Altrimenti, più che un referendum su Meloni, le prossime elezioni saranno l’ennesimo autogol dell’opposizione.
Oliver Hearn
università di Cambridge
La “Sinistra" delle istanze rivendicate dagli eredi della Resistenza non appartengono, in alcun modo, alle dinamiche e alla vita dei giovani (e non) elettori contemporanei. La reminiscenza delle lotte (antecedenti al Miracolo economico) che furono centrali per intellettuali come Pasolini, Ginzburg, Vittorini - solo per citarne qualcuno - e per molti politici della Prima Repubblica, dalle cui ceneri sono nati molti partiti della sinistra contemporanea: non ci appartengono. Oggi, ai partiti progressisti sono rimasti i diritti civili e l’ambientalismo. I diritti sociali non sono più al centro delle loro agende, o almeno così pare. Dagli anni Cinquanta a Tangentopoli, è stata la linea che PC e PSI avevano su temi quali: il Diritto al lavoro – artt. 35/36 o il Diritto all’assistenza sociale e alla previdenza del lavoratore – art. 38 a raccogliere il consenso (esclusa la breve parentesi post-sessantottina, conclusasi con il sì del ’78 al Referendum sull’aborto). Oggi, l’ex Terzo polo, PD, Alleanza Verdi e Sinistra e M5S hanno idee molto diverse su questi temi, che restano - ancora - centrali per i cittadini. Il Jobs Act di Renzi è incompatibile con il salario minimo della Shlein, il Reddito di Cittadinanza, voluto dal M5S, è stato abolito anche grazie al voto di Calenda. Dunque, da una parte, assopiti dai benefit che il capitalismo ha introdotto nelle nostre vite, è morta la “Sinistra”, dall’altra, le alternative alla Meloni che gli esponenti seduti sulle poltrone dell’arco parlamentare - da centro a sinistra - presentano, non trovano una sintesi coerente (e coesa) sui temi che agli italiani interessano di più. Il centro-sinistra concorde sulla “Lotta al cambiamento climatico” che rivendica l’importanza dei diritti delle donne e della comunità LGBTQIA+, non è abbastanza appealing. Superati personalismi e protagonismi, i partiti d’opposizione dovrebbero, prima di tutto, trovare una linea politica comune, per veder tramontare l’epoca degli eredi dell’estrema destra al pote
Francesca Rocca
Sapienza, Roma
“Per vincere – dice Renzi – l’opposizione deve andare unita”.
In una normal-democrazia liberale dominata dal principio dell’alternanza tra (due?) maggioranze omogenee nei riferimenti ideologici e nelle proposte politico economiche, una frase come quella del senatore di Rignano avrebbe, al più, provocato una nuova capovolta nella bara di monsieur de La Palice.
Nella Repubblica del Rosatellum, invece, le alternative dei lettori sono due: farsi una grassa risata senza troppi pensieri, o procedere con un’attenta esegesi dei fini del fu Terzo Polo.
Infatti, prima di domandarsi con quale formula l'opposizione debba unirsi, occorre domandarsi se oggi esista un’opposizione degna di tal nome.
Può un partito che ha sostenuto la nuova denominazione del “Ministero dell’Istruzione e del merito” e che la pensa (e vota) come la maggioranza su relazioni ministeriali, norme pandemiche, leggi penali, riforme istituzionali e, ora, sui referendum sul lavoro definirsi forza di opposizione e volerne addirittura tracciare la rotta?
A voler andare oltre l’ex premier (e quel che resta di Azione, tra traghettati e fuggitivi), guardando più a sinistra non c’è da gioire: immaginiamoci un’alleanza tra Conte, fiero populista di scuola leghista ma anche Robespierre dei giorni dispari, Fratoianni l’ambientalista alle prese con un’improvvisa necessità di distanziamento da Elon Musk e infine Schlein nel perpetuo vortice infernale di un partito di estrazione cattolica inventore del Jobs Act che non intende seguirla bensì sacrificarla sull’altare nelle necessità. Praticamente una litigiosissima e immobile bomba ad orolologeria.
Per vincere, direbbe qualcuno, l’opposizione dovrebbe scoprire di esistere e, una volta scoperto, dovrebbe capire cosa pensare (e proporre). Garantismo o giustizialismo? Libero mercato o Stato pianificatore? Agenzia della Riscossione o Agenzia della Repressione? Stato Laico o diretta Conclave? Matrimonio Egualitario o Unioni civili? Aborto sicuro per tutte o nicchiamo? Energia nucleare o idrocarburi a oltranza?
Quando un'opposizione riuscirà a rispondere a queste prime semplici domande, potrà chiamarsi tale e domandarsi con chi fronteggiare Meloni.
Fino a quel giorno, caro Renzi, l’opposizione potrà andare ovunque, ma non al governo del Paese.
Paolo Gravina
Università Tematica Pegaso