E' morto Mario Cervi, era così elegante che non volle mai scrivere del suo amico Montanelli

Salvatore Merlo
E’ stato uno dei pochi montanelliani a non scrivere mai un libro su Indro Montanelli, lui che pure avrebbe potuto, e senza tema di apparire incongruo come alcuni dei troppi e apocrifi allievi di un uomo, il Fenicottero Montanelli, che per la verità non volle mai avere né allievi né figli (“La mia eredità sono io”, è stato il suo epitaffio)

E’ stato uno dei pochi montanelliani a non scrivere mai un libro su Indro Montanelli, lui che pure avrebbe potuto, e senza tema di apparire incongruo come alcuni dei troppi e apocrifi allievi di un uomo, il Fenicottero Montanelli, che per la verità non volle mai avere né allievi né figli (“La mia eredità sono io”, è stato il suo epitaffio). Con quella stessa eleganza signorile che portava nei rapporti umani, persino in quelli più minuti che poteva mantenere con un giovane giornalista che lo tormentava di domande, Mario Cervi si è sempre sottratto con pudore dall’alimentare la paccottiglia di aforismi e aneddoti di dubbia origine che negli ultimi anni sono diventati la smorfia del suo amico Indro. Talvolta Cervi, con garbo, ci scherzava sopra: “Quando hanno una frase debole”, diceva, “gli basta aggiungere: ‘è di Montanelli’. Ed ecco che hanno trasformato una stupidaggine in un’arguzia”. Come succede anche a Longanesi e a Flaiano. L’Italia li ha tutti masticati e trasformati in rafforzativi: servono a dare un tocco d’autorevolezza.

 

E allora quando gli si chiedeva un pettegolezzo sulla vita del maestro, Cervi faceva come per sottrarsi, con la sua aria di anziano e amabile gentiluomo, salvo poi abbassare la voce, con un lampo negli occhi: “In effetti ci fu questa storia qua…”. E forse gli piaceva contraddirsi,  chissà, come piaceva anche a Montanelli, di cui lui aveva adottato gli stilemi, nel parlare e anche nello scrivere, ma senza mai trasformarsi in un imitatore. E anche lui non sopportava gli intellettuali della sinistra, i professoroni, i tribuni che impartiscono moniti dal pulpito. Ma i suoi articoli non erano spiazzanti come quelli del Fenicottero, perché Cervi era un altro tipo d’uomo, senza spigoli e impuntature burbere. Non ha mai voluto nemmeno paragonarsi a lui: “Indro sta qua”, diceva indicando nell’aria una vetta. Irragiungibile.

 

A novantaquattro anni, Mario Cervi apparteneva a una destra elegante e d’altri tempi, che non ruppe mai con Montanelli quando era vivo per riabbracciarlo utilmente da morto. Era un signore che, anche quando prendeva le posizoni più berlusconiane, sulle colonne del suo Giornale, non aveva mai il tono padronale, perché era indipendente. Ma sul serio. Quando lo conobbi mi confessò candidamente di non avere mai letto un mio articolo. “Il Foglio non ce l’ho in mazzetta. E poi sai, io non sono proprio… Non sono molto… Diciamo che questa destra di oggi non è la mia destra”.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.