Il paradosso di un bilancio primario da record

    Il dibattito politico italiano sul Meccanismo europeo di stabilità (Mes) ha assunto toni surreali. Specialmente considerando la cronica incapacità delle nostre classi politiche di rappresentare all'Europa e ai mercati i punti di forza del nostro paese, tra cui la solidità e la continuità del bilancio primario che l'Italia è in grado di esprimere da ormai quasi tre decenni. Perciò, se vi fosse più consapevolezza di tali punti di forza, e conseguentemente maggiore capacità negoziale, nonché maggiore compattezza tra i partiti italiani nella difesa dell'interesse nazionale, questioni rilevanti come inserire il Mes in una logica di elaborazione complessiva delle riforme europee e non per comparti stagni nemmeno si porrebbe. Anzi, andrebbe semplicemente pretesa come conditio sine qua non affinché l'Italia si sieda al tavolo delle trattative. Così come, nella prospettiva di una unione bancaria europea, l'ipotesi di un meccanismo di eventuale penalizzazione dei titoli di Stato italiani detenuti dalle nostre banche andrebbe respinta al mittente (leggasi paesi del Nord Europa) come una totale assurdità, in quanto i titoli di Stato italiani sono incommensurabilmente più solidi dei derivati che, ad esempio, hanno in pancia per enormi quantitativi le banche tedesche.

    E' evidente che l'Italia deve impegnarsi a stabilizzare e ridurre il proprio rapporto debito/pil, che è troppo alto (così come ormai è molto alto anche quello di tante altre economie importanti, dalla Francia alla Spagna, dagli Stati Uniti al Giappone). Ma è altrettanto evidente che l'Italia non è equiparabile a un paese sudamericano e nemmeno alla Grecia del 2010. E sarebbe forse utile che i nostri politici, anziché utilizzare il terreno delle discussioni europee per azzuffarsi in continuazione, cominciassero a studiare un po' di più gli indicatori economici che potrebbero essere utili per negoziare anzitempo in Europa obiettivi strategici e riforme a vantaggio dell'Italia, senza dover sempre rincorrere in affanno gli schemi imposti da altri paesi e cercare di rintuzzarli fuori tempo massimo.

    All'Italia il record mondiale

    Il bilancio primario di un paese è la differenza tra entrate e uscite annue prima del pagamento degli interessi sul debito pubblico. Il bilancio primario è in surplus se la differenza tra entrate e uscite delle pubbliche amministrazioni prima degli interessi è positiva. E' invece in deficit se tale differenza è negativa.

    Il bilancio primario è un indicatore importante, anche se non sufficientemente considerato come meriterebbe, del grado di virtuosità di una nazione nella gestione dei conti pubblici. E forse sorprenderà sapere che l'Italia è stata ininterrottamente in avanzo primario dal 1992 ad oggi, con la sola eccezione del 2009, quando il nostro paese presentò temporaneamente un piccolo deficit primario, come accadde anche, ma con disavanzi di ben maggiore ampiezza, a tutte le altre maggiori economie in concomitanza con la profonda crisi mondiale di quell'anno.

    Non solo. E' importante sapere che dal 1992 in poi l'Italia ha accumulato il più grande surplus primario di bilancio tra tutti i paesi del mondo. Ciò forse potrà stupire, ma è proprio così.

    Partiamo dai dati della Commissione europea, che sono i più attendibili e omogenei, perciò confrontabili. Tali statistiche sono disponibili dal 1995 per tutti i paesi dell'Unione europea (esclusa la Croazia le cui serie cominciano dal 2001), per gli Stati Uniti e il Giappone. E ci dicono una cosa chiara. Dal 1995 al 2018 soltanto 12 paesi sui 30 considerati hanno accumulato un surplus primario pubblico e l'Italia ha generato di gran lunga il più importante avanzo, pari a 730 miliardi di euro correnti, cioè il 37 per cento del totale, pari a una “torta” positiva di 1.975 miliardi. L'Italia ha fatto meglio della Germania (546 miliardi), del Belgio (185 miliardi), della Svezia (159 miliardi), della Danimarca (140 miliardi) e della Finlandia (84 miliardi).

    Per contro, 18 paesi su 30 analizzati hanno presentato nel periodo 1995-2018 un deficit pubblico primario cumulato, per complessivi 8.739 miliardi di euro: una “torta” negativa imponente a cui hanno contribuito principalmente il Giappone (3.540 miliardi), gli Stati Uniti (3.423 miliardi), il Regno Unito (637 miliardi), la Francia (464 miliardi) e la Spagna (290 miliardi).

    Ciò detto, sulla base dei dati del Fondo Monetario Internazionale relativi a pil e bilancio primario in percentuale del pil, si può altresì stimare che l'Italia abbia generato nel periodo 1992-2018 il più grande surplus primario cumulato al mondo, davanti alla Norvegia, nazione piccola ma ricchissima di petrolio e gas, alla Germania, al Brasile, agli Emirati Arabi Uniti e alla Russia.

    E' interessante notare che tra le grandi economie avanzate più mature troviamo in surplus primario nel periodo 1992-2018 soltanto Italia, Germania e, molto più distaccato per valore assoluto, il Canada. A cui si aggiungono unicamente alcuni piccoli paesi come Belgio, Danimarca e Svizzera. Altrimenti il gruppo delle nazioni con bilancio pubblico primario in surplus è dominato soprattutto dalla presenza di economie molto ricche di materie prime energetiche o non energetiche, (oltre a quelle già citate in precedenza, troviamo Kuwait, Qatar, Arabia Saudita, Messico, Indonesia, Peru), le quali, grazie alle enormi entrate generate dall'export di risorse naturali, non debbono faticare molto nel far quadrare i propri bilanci pubblici.

    Perché l'Italia non ha mai fatto default

    Se l'Italia non ha mai fatto default né è mai stata una nazione realmente pericolosa a causa del suo alto debito pubblico è proprio perché ha sempre saputo produrre costantemente su un lungo arco di tempo un avanzo statale primario considerevole. Purtroppo, abbiamo ereditato dalla Prima Repubblica una mole di debito talmente grande che ci ha messo in una condizione estremamente svantaggiosa: infatti, dagli inizi degli anni 90 siamo condannati a produrre, gioco forza, somme ingenti di surplus primario per pagare, almeno in parte, la grande quantità di interessi sul debito pregresso. Ma è proprio questo il punto. Dal 1992 il debito pubblico italiano è cresciuto esclusivamente a causa degli interessi non sufficientemente coperti dall'avanzo primario, non perché abbiamo avuto una finanza allegra. Certo, quando è partito l'euro e i tassi sono scesi abbiamo sprecato una occasione, soprattutto tra il 2001 e il 2006, per ridurre più marcatamente il rapporto debito/pil. Ma anche se l'avessimo fatto, diciamo per 10-15 punti di pil in meno, la nostra immagine di grande paese debitore sarebbe forse cambiata nella percezione delle agenzie di rating e dei mercati? Ne dubitiamo, perché l'idea di una Italia piena di debiti e con i conti dissestati è un luogo comune molto diffuso e radicato. E, naturalmente, come direbbe il direttore Cerasa, questo luogo comune è uno dei cavalli di battaglia dei “tafazzisti” a oltranza.

    E' dunque cruciale capire perché una nazione come l'Italia che nel 2018 ha presentato un debito di 2.380 miliardi di euro, praticamente uguale a quello della Francia (2.315 miliardi), debba pagare 24 miliardi e mezzo di interessi in più all'anno della Francia (64,7 miliardi contro 40,3). La risposta, si dirà, sta nel rapporto debito/pil: quello italiano (134,8) è sensibilmente più alto di quello francese (98,4). E il debito/pil, secondo la dottrina prevalente, è il “dogma” assoluto.

    Noi invece riteniamo che questa visione vada modificata. Con ciò non vogliamo affermare che il debito italiano non sia un problema. La crescita del suo valore assoluto va frenata e il debito/pil va sicuramente ridotto. Ma i tempi di questa sua riduzione non possono essere quelli irrealistici e vessatori del Fiscal compact. Né il livello degli interessi che l'Italia deve pagare può essere parametrato soltanto al rapporto debito/pil.

    Il bilancio primario, a nostro avviso, deve essere un parametro ugualmente importante. Intendiamo un avanzo primario costante ragionevole, tra l'1,5-2 per cento del pil, non un surplus “monstre” che abbatterebbe sì il debito ma ucciderebbe anche la crescita, facendo aumentare comunque il rapporto debito/pil che si vorrebbe invece far diminuire. Ebbene, l'Italia un surplus primario ragionevole ha dimostrato nei fatti di saperlo produrre costantemente, più di qualunque altro paese al mondo negli ultimi 27 anni. Ad esempio, nel 2018 l'Italia ha presentato un surplus primario pubblico di 26 miliardi mentre la Francia ha presentato un deficit primario di 19 miliardi: una differenza di virtuosità tra i due paesi di ben 45 miliardi a nostro vantaggio. Il surplus primario italiano del 2018, pur essendo uno dei nostri più bassi degli ultimi 27 anni, è stato comunque migliore del surplus primario più alto dell'intera storia della Francia, toccato nell'ormai lontano 2001 (appena 25 miliardi). E dal 2002, poi, la Francia è sempre stata in deficit primario sino ad oggi, salvo due impercettibili surplus nel 2006 e nel 2007. Tant'è che dal 2002 al 2018 il surplus pubblico primario cumulato dell'Italia è ammontato a 389 miliardi di euro correnti mentre il deficit primario francese è stato di ben 520 miliardi!

    Ma come ridurre, allora, il debito/pil? La risposta, perlomeno nel caso italiano, è: sicuramente non soltanto con il rigore. Una prova di ciò sono gli accadimenti del triennio 2012-14 improntato dalla cosiddetta “austerità”. Si veniva dal triennio berlusconiano 2009-11 in cui, complice anche la grave crisi mondiale del 2009, il debito/pil dell'Italia era salito di 13,6 punti, dal 106,1 per cento del 2008 al 119,7 per cento del 2011. E l'aumento avrebbe potuto essere anche maggiore senza l'impegno come “guardiano dei conti” del ministro dell'economia Giulio Tremonti, che mise dei paletti ai programmi di aumento della spesa pubblica auspicati dalla sua stessa coalizione di governo. Ma quel triennio italiano, anche se i debiti/pil di altri paesi (dagli Stati Uniti alla Francia, dalla Gran Bretagna alla Spagna) stavano crescendo ben più del nostro, fu bollato senza appello come non sostenibile dai mercati, dalla Commissione europea, nonché dalla Bce (che nell'estate del 2011 spedì all'Italia la famosa “lettera”). Sicché, stante il dilagare del contagio greco in tutta l'Euro area, e complici anche gli scandali a luci rosse di Arcore e la forte perdita di credibilità dell'esecutivo italiano, il nostro spread andò alle stelle.

    Il tracollo evitato da Monti

    A levare le castagne dal fuoco fu chiamato Mario Monti. I cui meriti sono stati indiscutibili perché il suo governo evitò il tracollo finanziario del paese, e in particolare Elsa Fornero mise coraggiosamente la propria faccia su una riforma delle pensioni magari viziata da qualche errore tecnico ma assolutamente indispensabile per assicurare la tenuta del sistema previdenziale e la sostenibilità del nostro debito a lungo termine.

    Inoltre, cosa che pochi ricordano, Monti, con la sua posizione determinata al consiglio europeo del giugno 2012 circa la necessità di varare uno scudo anti-spread, aprì in qualche modo la strada al “whatever it takes” di Mario Draghi. Tuttavia, l'applicazione troppo alla lettera delle raccomandazioni europee (la tassa sulla prima casa non era assolutamente necessaria e fece precipitare il mercato immobiliare e la fiducia delle famiglie) portò l'Italia ad una dura recessione. Il crollo della nostra economia nel 2012-13 fu di tale ampiezza che il debito/pil, che si voleva ridurre, nel triennio 2012-14, improntato dall'austerità e dai suoi strascichi, aumentò invece di 15,7 punti, dal 119,7 per cento del 2011 al 135,4 per cento del 2014: un incremento drammatico che, anche al netto dell'aiuto dell'Italia agli altri paesi europei in difficoltà (un vero paradosso questo: infatti, non eravamo come la Grecia e gli altri Pigs?), fu comunque dell'ordine di circa 13 punti. Cioè un aumento sostanzialmente uguale a quello avvenuto nel precedente triennio berlusconiano. (segue a pagina quattro

    Fatti salvi i citati meriti del governo Monti, l'Italia inoltre sbagliò a non chiedere gli aiuti sulle banche come invece fece accortamente la Spagna, a tassi assolutamente irrisori. Probabilmente fu sottovalutata la situazione reale di molti dei nostri istituti di credito, dal Mps a tante banche popolari traballanti. Sta di fatto che quegli aiuti, se li avessimo chiesti, ci sarebbero serviti, eccome, negli anni successivi.

    La dimostrazione che il rigore da solo non basta a ridurre il debito/pil viene da ciò che è poi accaduto nel triennio 2015-17. In questo triennio, infatti, il debito/pil è diminuito di 1,3 punti percentuali, dal 135,4 per cento del 2014 al 134,1 per cento del 2017. Ciò è potuto avvenire perché Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan hanno abilmente negoziato con Bruxelles delle deroghe all'assurdo ritmo di riduzione forzata del debito/pil stabilito dal Fiscal compact: Renzi e Padoan hanno cioè ottenuto la cosiddetta “flessibilità”. Dietro questa parola sta un saggio mix tra rigore (la spesa pubblica corrente al netto degli interessi in percentuale del pil nel 2015-17 è diminuita) e espansione del pil reale (nel triennio 2015-17 l'aumento medio annuo è stato dell'1,3 per cento, come non si vedeva da anni).

    In altre parole, il debito/pil di un paese con alti interessi sul debito pregresso come l'Italia non può calare se non vi è anche una crescita economica adeguata, che l'adempimento pedissequo delle regole del Fiscal compact invece ucciderebbe sul nascere.

    Servono altri parametri per misurare la sostenibilità dei debiti sovrani

    Come abbiamo già argomentato in un nostro precedente articolo (M. Fortis, “In debito di credibilità”, Il Foglio, 27 novembre 2018), sarebbe logico considerare, oltre che il debito/pil, anche altri indici nel valutare adeguatamente la sostenibilità dei debiti sovrani. Ne citeremo qui tre come esempi:

    1) la percentuale di debito pubblico finanziata da stranieri (che in Italia è relativamente bassa, pari al 29 per cento circa del totale nel 2018, mentre la Francia e la Germania sono più esposte di noi verso l'estero, entrambe con una quota del 47 per cento circa);

    2) la ricchezza finanziaria netta delle famiglie (che in Italia è alta, essendo 1,8 volte il pil; e la cui stessa esistenza dimostra che la famigerata “patrimoniale” per ridurre il debito pubblico/pil, che alcuni periodicamente rispolverano, non serve affatto. Primo, perché buona parte dei risparmi privati è investita direttamente, ma soprattutto indirettamente (attraverso banche, assicurazioni, fondi), in titoli di Stato italiani, sostenendoli. Secondo, perché l'Italia è, per l'appunto, ben patrimonializzata. Sicché, se venisse valutata come un'azienda sarebbe giudicata più meritevole di credito non soltanto della Grecia ma anche di Portogallo, Irlanda, Spagna e quasi al pari della Francia e della Germania;

    3) la posizione finanziaria complessiva sull'estero (cioè il saldo dei debiti e dei crediti privati e pubblici dell'Italia verso il mondo, che è assai contenuto, pari a meno del 5 per cento del pil nel 2018: un dato veramente eccellente, migliore di quelli di Regno Unito con meno 11 per cento, Francia con meno 16 per cento e Spagna con meno 80 per cento).

    Purtroppo, però, questi tre indicatori per l'Italia molto positivi vengono ampiamente trascurati dagli investitori, dalle agenzie di rating e dalla stessa Ue, che fondamentalmente non li conoscono. Né il nostro governo ha mai saputo promuoverli adeguatamente. Con il paradosso che facciamo spesso la voce grossa sulle regole europee senza però saper presentare argomenti convincenti come quelli sopracitati almeno per chiedere che la sostenibilità del nostro debito pubblico e le condizioni finanziarie complessive del nostro paese vengano giudicate in una prospettiva più corretta e completa. Non solo da parte della Commissione europea ma anche da parte delle agenzie di rating e dei mercati.

    Ma è soprattutto il bilancio pubblico primario che, oltre ai tre indicatori testé citati, dovrebbe fare testo. Specialmente se un paese si dimostra di essere in grado, come ha fatto l'Italia per oltre 5 lustri, di saperlo mantenere costantemente positivo.