Venezia ha un'emergenza di nome Enfasi
E' fatta di pietra, eretta nell'acqua della laguna, subisce correnti argilla venti luna e il combinato movimento degli elementi, sa di oriente e bella è bella, come una divinità, tutti nel mondo vogliono calpestarla, le acque la sommergono regolarmente ogni autunno e a volte replicano, da centinaia di anni. A parte Cacciari, che ha blaterato di baruffe amministrative e ingegneristiche nel suo stile profetico antimosaico, ma si è riscattato parlando della “solita rogna” dell'aqua granda, e Luca De Michelis, che ha chiesto di trattarla con umori meno bislacchi, senza considerarla un monumento sotto il vulcano liquido, per il resto è stato un fiorire malaccorto di toni apocalittici, e l'enfasi, anzi l'Enfasi, questo grande nemico di Venezia, ha fatto più danni e profondi della salsedine nella cripta di San Marco, e tra i mosaici e le colonne.
Senza ironia, amore modesto delle perifrasi e delle metafore più sorvegliate, la questione di Venezia da salvare, da conservare, da sopraelevare, da nascondere alla vista profana del turismo e alle visite sacrileghe del mare, non si risolverà, posto che debba e possa risolversi, quel primo dubbio che non si dovrebbe scordare mai. Nell'Enfasi ciascuno ha una diagnosi e una prognosi, e un suo io-ve-lo-avevo-detto, e la città è trattata con la stessa tenera e insipida benevolenza usata da cattivi poeti e cattivi pittori e peggiori esteti per specchiarsi nella luce lagunare così unica ma così banale nelle loro immagini. Cattivi amministratori hanno protratto dal 1984 al 2020 o al 2021 l'entrata in funzione di una diga, nel frattempo diventata un Leviatano su cui caricare le solite colpe mostruose dello stato, e il risultato è che l'acqua alta, di per sé capace di superare qualunque ostacolo, di ostacoli non ne trova. Perché stupirsi con questa gestualità formidabile, al di là dell'inconsolabile dispiacere per i danni al patrimonio, esposto a venti e maree, e per il tremendo disagio urbano, prevedibile e previsto da sempre in una città spettrale per definizione? Perché registrare come suoni e rumori di fondo, con procedure di preènfasi e di deènfasi, le angosce e le paure collettive sulla città che annega sommersa contro le prove e le dure repliche di secoli di storia della sua sopravvivenza?
Stavolta il linguaggio salvazionista e le sue tinte catastrofiche hanno trovato in qualche testimone della “solita rogna dell'aqua granda” un contravveleno, perfino con la sottolineatura dell'editore veneziano del troppo disutile della “morte a Venezia”, ché “Mann non era uno scrittore veneziano”, come ha detto. La bellezza di quella città è che è immedicabile, e ha con l'acqua un legame di destino difficile da modificare, quando forse basterebbe finire di costruire una diga per creare almeno un parziale alleviamento; e la maligna bruttezza della nostra relazione pseudo-decadente con i suoi ponti, canali, i suoi calli e piazze e campi, sta in una improvvida volontà di cura che ha il colore inconfondibile del ciarlatanismo. Evviva Venezia libera dalla magia nera della sua eterna declamazione di salvezza.


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