
Ansa
Un Foglio internazionale
Se l'occidente vuole sopravvivere al suicidio demografico, impari da Israele
L’Onu stima che quasi un quarto dei paesi del mondo vedrà la propria popolazione diminuire in media del 14 per cento nei prossimi 30 anni. L'eccezione dello stato ebraico e la combinazione tra religione e nazionalismo
"Gran parte della popolazione del mondo sviluppato ha iniziato a diminuire, o lo farà presto, per la semplice ragione che le donne hanno così pochi figli”, scrive Foreign Policy. “Tra i paesi dell’Ocse, il tasso di fecondità totale (il numero medio di figli che una donna dovrebbe avere nell’arco della sua vita) è pari a 1,5, ben al di sotto del tasso di sostituzione di 2,1 figli per donna. L’Asia sviluppata sta vivendo la stessa tendenza, guidata dalla Corea del Sud con un tasso di appena 0,75 lo scorso anno. Diversi paesi in via di sviluppo stanno vivendo lo stesso fenomeno. Il pianeta raggiungerà il picco di 10,3 miliardi a metà degli anni 2080, per poi diminuire del sette per cento entro il 2100. L’unica eccezione al declino nel mondo sviluppato è Israele.
In base a praticamente tutti i parametri socioeconomici che i demografi attribuiscono al calo della fecondità, il tasso di Israele dovrebbe essere come gli altri, attestandosi al livello di sostituzione o ben al di sotto. Eppure, in barba alle regole, il tasso di Israele è in aumento da gran parte degli ultimi 30 anni. Alex Weinreb, demografo del Taub Center for Social Policy Studies in Israele, stima che il tasso nel 2023 fosse di 2,84, e che l’anno scorso potrebbe essere leggermente aumentato.
C’è qualcosa che i politici possono imparare dall’esperienza israeliana?
Alcuni accolgono con favore il calo demografico come un modo per alleviare il peso ambientale che l’umanità impone al pianeta. Ma per molti paesi, il declino sarà traumatico. L’Onu stima che quasi un quarto dei paesi del mondo vedrà la propria popolazione diminuire in media del 14 per cento nei prossimi 30 anni. Se queste tendenze continueranno, la popolazione della Corea del Sud sarà un terzo di quella attuale entro la fine del secolo. Anche laddove il declino non sarà così brusco, i sistemi di previdenza sociale non saranno più sostenibili. Le società che invecchiano saranno private dell’energia e della capacità innovativa dei giovani. Incoraggiare l’immigrazione per attenuare gli effetti di una popolazione autoctona in declino minaccia di esacerbare le tensioni sociali. Per incoraggiare un maggior numero di nascite, la Corea del Sud ha speso 270 miliardi di dollari negli ultimi diciotto anni e ha persino organizzato eventi di incontri sponsorizzati dallo stato per promuovere il matrimonio. La Francia spende tra il 3,5 e il 4 per cento del suo pil in sussidi, servizi e agevolazioni fiscali, eppure il suo tasso demografico era di appena l’1,6 nel 2024. La Cina, che è tra i paesi a medio reddito che stanno anch’essi affrontando un calo del tasso, ha abbandonato la sua rigida politica del figlio unico nel 2016 e da allora ha adottato misure per aumentare il tasso di natalità attraverso, tra le altre cose, l’intercettazione da parte dei funzionari dei piani di gravidanza delle donne e l’incoraggiamento dei datori di lavoro a licenziare il personale non sposato. Ma nessuna di queste politiche, che vanno dagli incentivi economici e sociali alle pressioni esplicite, ha aumentato il tasso se non per un breve periodo. Israele offre una soluzione politicamente e socialmente più accettabile?
In Israele, i demografi suddividono convenzionalmente il tasso demografico in base alla fede religiosa (ebrei, musulmani, drusi e cristiani). Tra la maggioranza ebraica, il tasso è ulteriormente suddiviso in base al livello di osservanza religiosa. L’elemento religioso non può essere facilmente ignorato: la religiosità, o la sua assenza, gioca un ruolo enorme nella politica, negli stili di vita, nell’istruzione e nella geografia israeliani. E, naturalmente, la disputa israelo-palestinese ha assunto una sfumatura sempre più religiosa. Nel 2020-22 (gli ultimi anni per i quali sono disponibili dati ufficiali), il tasso degli ultraortodossi haredi era di 6,48 figli per donna, eguagliato solo dai paesi dell’Africa subsahariana, dove i tassi spesso superano i 5 e raggiungono i 6,64 nel caso del Niger. Ciò nonostante, il tasso di fertilità degli Haredi è diminuito negli ultimi due decenni da un picco di quasi 7,3, probabilmente perché, tra le numerose peculiarità della comunità, ci si aspetta che le donne lavorino e mantengano le proprie famiglie mentre i mariti proseguono gli studi religiosi fino all’età adulta. L’onere del sostentamento familiare per queste donne sembra avere un effetto statistico. Il tasso di fertilità delle donne musulmane nel 2022 era di ben 2,87, secondo i dati governativi, ma questo racconta solo metà della storia.
Tra gli arabi israeliani, che includono popolazioni molto piccole di cristiani e drusi, il tasso di natalità è diminuito drasticamente, in linea con le tendenze del mondo arabo e dei paesi a maggioranza musulmana. Solo vent’anni prima, il tasso per i musulmani israeliani era di 4,55 figli per donna. Nel frattempo, il tasso di fertilità per l’intera popolazione ebraica israeliana è cresciuto da 2,65 figli per donna nel 2002 a 3,06 nel 2022. Dopo il 2018 si è registrato un certo calo, ma il tasso totale degli ebrei israeliani è ancora superiore del 15 per cento rispetto a 20 anni fa, mentre il tasso musulmano è diminuito del 37 per cento. La situazione israeliana diventa rilevante quando si parla di tasso per la popolazione ebraica non haredi. Le donne ebree non haredi, una categoria che comprende una gamma che va dall’ortodossia moderna e tradizionale alla laica, hanno registrato un tasso di 2,45 nel 2022; in questo gruppo, solo le donne ebree che si sono identificate come completamente laiche hanno registrato un tasso inferiore al livello di sostituzione. Le diverse traiettorie di fertilità tra ebrei e musulmani israeliani sembrerebbero indicare che l’ebraismo sia un fattore determinante. Questo è vero nella misura in cui più una donna è religiosamente osservante, maggiori sono le probabilità che abbia più figli. Ma anche le donne ebree laiche in Israele hanno registrato un tasso relativamente alto, pari a 1,96 tra il 2020 e il 2022.
La consueta serie di fattori che i demografi indicano come deterrenti per le persone nei paesi sviluppati dall’avere figli si applica anche a Israele, a cominciare dal costo della vita. In percentuale sul reddito familiare, il costo delle abitazioni in Israele si colloca nella media dei paesi Ocse e tende ad essere meno elevato. Con il 2,5 per cento del pil, la spesa pubblica israeliana per l’assistenza all’infanzia è solo leggermente superiore alla media Ocse. Dato l’alto tasso di natalità, su base pro capite, la spesa statale israeliana è di fatto inferiore alla media. In termini di aumento dell’istruzione e di crescenti livelli di occupazione fuori casa, le donne israeliane non dovrebbero essere più propense delle loro sorelle nei paesi sviluppati ad avere molti figli. Eppure le donne israeliane con un’istruzione universitaria non hanno meno figli di quelle con un livello di istruzione inferiore. I tassi di partecipazione femminile al mercato del lavoro in Israele sono equivalenti a quelli degli Stati Uniti e della maggior parte dell’Europa, eppure i tassi di fertilità sono aumentati negli ultimi decenni, nonostante un numero sempre maggiore di donne sia entrato nel mondo del lavoro.
Le femministe spesso sottolineano le pressioni sociali che le donne israeliane devono affrontare per avere figli, ma questo non spiega perché tali pressioni continuino a esistere dopo che si sono ampiamente attenuate in altri paesi sviluppati. La risposta sembra risiedere in una combinazione di religione e nazionalismo, un fenomeno che lo studioso canadese Kevin McQuillan ha osservato in un contesto globale. Queste due forze, afferma, sono particolarmente potenti in presenza di un conflitto o di una competizione continua con altri gruppi etnico-religiosi. Un altro fattore presente in Israele è stato descritto come ‘familismo’, l’ideologia che privilegia il ruolo sociale della famiglia, secondo Barbara S. Okun, professoressa di Sociologia presso l’Università ebraica di Gerusalemme. La componente nazionalista sembra piuttosto evidente. Anni di guerra e un senso di assedio hanno forgiato un nazionalismo potente in Israele, che attraversa l’intero spettro politico. L’aspetto religioso è meno evidente, poiché solo una minoranza di israeliani sono osservanti rigorosi. Ma Okun ritiene che nel contesto israeliano nazionalismo e religione siano quasi inseparabili. ‘Per la maggior parte degli ebrei israeliani, l’identità nazionale significa sentirsi connessi al popolo ebraico ed essere membri della maggioranza ebraica di Israele e quest’idea è diversa da quella strettamente basata sulla religione’, ha spiegato in un articolo dell’anno scorso intitolato ‘Fede e fertilità in Israele’. Ha aggiunto: ‘Questo spiega in gran parte perché il familismo sia persistito nonostante la trasformazione di Israele in una nazione emergente che premia i successi individuali’. Creare un senso di nazionalismo assediato non è una soluzione che probabilmente verrà adottata dalla maggior parte delle democrazie. D’altra parte, potrebbe sembrare musica per le orecchie del presidente russo Vladimir Putin, del primo ministro ungherese Viktor Orbán, del presidente cinese Xi Jinping e di una miriade di altri autocrati che hanno cercato di fare leva sul nazionalismo e (tranne la Cina) sulla religione per invertire il calo dei tassi di natalità.
Ma non è così facile. Il governo israeliano incoraggia sia il nazionalismo che la religiosità, ma lo fa per fini politici, non per spingere le donne ad avere più figli. Il nazionalismo religioso israeliano è un fenomeno dal basso, frutto della memoria storica e della realtà quotidiana. Non può essere facilmente costruito. Citando un calo dei tassi di natalità verificatosi dopo il 2018, alcuni demografi avevano iniziato a ipotizzare che le forze del modernismo fossero finalmente in ascesa in Israele. Ma i demografi potrebbero aver parlato troppo presto. Una delle tante ironie dell'attacco di Hamas del 7 ottobre è che ha acuito il senso di assedio e alimentato le fiamme del nazionalismo e del comunitarismo. Il baby boom post 7 ottobre potrebbe rivelarsi temporaneo o potrebbe essere sostenuto da un rinnovato nazionalismo”.
(Traduzione di Giulio Meotti)