Patrizio Raso nella foto di Cesare Lopopolo
fauna d'arte
Ombre e orizzonti, storie personali e impegno civile. L'arte politica di Patrizio Raso
Con progetti partecipativi come "Ombra di tutti", l’artista di Polistena esplora il confine tra privato e pubblico, attivando relazioni autentiche e visioni alternative della convivenza collettiva. Dall’officina del padre ai progetti collettivi con Wurmkos
Nome e cognome: Patrizio Raso
Luogo e anno di nascita: Polistena (RC) 1978
Gallerie di riferimento e contatti social: FB IG
L'intervista
Intervista realizzata in collaborazione con Anna Setola
Com’è organizzata la tua giornata?
Non ho rituali preordinati. Mi capita spesso di svegliarmi molto presto, in queste prime ore della giornata, ancora nel silenzio della notte, talvolta leggo, ma soprattutto penso e rielaboro quello su cui sto lavorando.
Il pomeriggio lo dedico alla parte operativa e organizzativa dei progetti in corso e incontro il gruppo Wurmkos con cui lavoro da dieci anni e dove uso una metodologia che si attua attraverso un dialogo aperto e condiviso.
In che modo hai iniziato a fare l’artista?
Non credo esista un modo per iniziare a fare l’artista, ma esistono condizioni che ti spingono in quella direzione. Ricordo che da bambino passavo le mie giornate nell’officina da fabbro di mio padre, dove giocavo con gli scarti e la polvere del ferro. In seguito il mio interesse per l’arte si è acuito durante il liceo, incontrando e frequentando lo studio dell’artista Cesare Berlingeri, incontro fondamentale per proseguire gli studi all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Con il trasferimento a Milano, ho sentito la necessità di non isolarmi e di mettere il lavoro artistico in dialogo con altre persone, proponendo nel 2010 BAUBAUS, un percorso in cui guidavo gruppi di persone ad indagare il contemporaneo attraverso le opere degli artisti, proponevo pratiche nell’arte di osservazione generativa. Questa esperienza, dopo qualche anno, mi ha poi condotto a collaborare attivamente con il gruppo Wurmkos.
Perché utilizzare la pratica artistica come strumento dedito al cambiamento?
Utilizzare la pratica artistica come strumento dedito al cambiamento, oggi, significa prendere posizione di fronte a un processo che considero profondamente inquietante: il meccanismo di normalizzazione che investe progressivamente ogni aspetto della vita sociale.
La pratica artistica interviene proprio qui. Non per fornire soluzioni, ma per interrompere questo flusso livellante, per restituire peso all’esperienza, per riaprire uno spazio di percezione e di responsabilità. L’arte, quando assume una dimensione politica, rallenta, complica, rende visibile ciò che è stato messo in ombra. Così predispone un terreno d’attenzione, in cui le persone possono immaginare altri modi di stare al mondo, nella creazione di uno spazio per sperimentare visioni alternative e aprire orizzonti di possibilità.
Qual è la funzione dell’arte oggi?
È il risultato di un processo artistico, individuale o collettivo, che non si conclude con la realizzazione di un’opera. Al contrario, l’opera avvia un processo e diviene un campo di esercizio politico e poetico insieme, che può proseguire a tempo indeterminato a condizione che si creino le possibilità perché questo accada. In questo senso la funzione dell’arte, oggi, deve avere la capacità di interrogare le persone e di porle di fronte a questioni che creino un’azione, una forma di presenza per immaginare e praticare forme di convivenza, di cura e di responsabilità collettiva.
Quali sono i tuoi riferimenti visivi e teorici?
Sono molteplici i riferimenti visivi e teorici del mio lavoro. Ne cito alcuni, in quanto le loro teorie mettono al centro il rapporto tra individuo, società e potere. Ad esempio, Susanne Lucy mi interessa per l’uso del corpo come strumento critico, capace di rendere visibili tensioni sociali e psicologiche. Tania Bruguera rappresenta per me un modello di arte come azione politica e responsabilità civile, come anche il lavoro sociale di Piero Gilardi. Mi affascinano le teorie sullo spazio educativo di Paulo Freire, come luogo di dialogo, relazione e di pratica critica, in cui educatori ed educandi costruiscono insieme conoscenza per comprendere e trasformare la realtà. Hannah Arendt mi aiuta, invece, a riflettere sullo spazio pubblico, sull’azione e sulla responsabilità individuale; infine, Carla Lonzi per il suo pensiero femminista radicale e per la critica alle strutture di potere nel mondo dell’arte.
Sul versante visivo trovo interessante John Berger che mi ha insegnato a guardare le immagini come costruzioni culturali e non come oggetti neutri, e Roland Barthes fondamentale per l’analisi dei segni e dei significati nascosti nel linguaggio e nelle immagini.
Questi sono alcuni dei riferimenti che mi aiutano a leggere il presente in modo critico e consapevole e mi offrono strumenti per interrogare le immagini. In questo modo l’arte diventa un luogo di domanda più che di risposta.
Cosa nella tua pratica artistica non può mancare affinché possa essere una forma di attivismo culturale?
Non può mancare una relazione autentica con le persone e i contesti in cui il lavoro prende forma. E queste relazioni non sono né immediate né artificiali, si sviluppano lentamente, attraverso la presenza, l’ascolto e l’esperienza condivisa; per questo hanno bisogno di uno spazio reale di vita, non astratto o solo formale, in cui le persone possono incontrarsi e riconoscersi.
A che cosa stai lavorando?
Dal 2020 sto sviluppando il progetto Ombra di tutti, un percorso artistico e politico intorno al Monumento a Roberto Franceschi: un maglio d’acciaio alto sette metri, installato nel 1977 in via Bocconi a Milano, nel punto in cui Franceschi fu colpito a morte dalla polizia il 23 gennaio 1973. Proprio in questi giorni e fino all’11 gennaio 2026, alla Casa della Memoria è in corso la mostra di Ombra di tutti a cura di Marco Scotini promossa dalla Fondazione Roberto Franceschi Onlus.
Si tratta di un’opera di tessitura, un abito collettivo, che intreccia al montgomery originale di Roberto Franceschi, oltre 150 indumenti donati da cittadini e cittadine, studenti, familiari di vittime civili, attivisti e associazioni. Ogni capo è portatore di una storia: memoria personale, legame affettivo, gesto politico. I tessuti sono stati raccolti con la Fondazione Roberto Franceschi attraverso un processo partecipativo cominciato nel 2021 proprio davanti al Monumento, e proseguito in tutta Italia fino al 2025 tramite incontri pubblici, laboratori, workshop e chiamate collettive.
Penso che l’esposizione sia solo l’inizio di una nuova progettualità in cui la tessitura possa divenire condizione di presenza per chi ne fa richiesta ed essere quindi testimone di ulteriori eventi, incontri, dibattiti e performance nello spazio pubblico.
Qual è, nelle tue opere, il confine tra il pubblico e il privato, e tra la tua esperienza personale e la comunità?
Per me non c’è un confine. Nelle mie opere è importante l’emersione del privato per rendere possibili dei ponti di dialogo profondi tra l’individuo e la comunità. Mi rendo conto che per avviare la possibilità che questo accada bisogna stabilire dei piani di fiducia importanti, per questo i miei lavori spesso sono il frutto di un lungo processo in cui sono io per primo a mettermi in gioco con gli altri.
Ad esempio, in Abitare le parole, per il progetto A Cielo Aperto, promosso dall’Associazione Culturale Vincenzo De luca a Latronico, in Basilicata, l’incontro con Francesco con il quale ho sviluppato il lavoro è avvenuto attraverso la frequentazione assidua delle sue abitudini: camminare, correre, parlare, leggere. Il confronto ci ha portati a maturare l’idea di continuare a farlo per le vie del paese indossando entrambi gli indumenti da lavoro dei nostri padri. Questi abiti costituivano per noi elemento di prova, strumento di fatica attraverso il quale avveniva l’incontro che è poi maturato in una profonda comprensione e condivisione.
Che cos’è per te lo studio d’artista?
È qualsiasi spazio che organizzo ogni qualvolta ho l’esigenza di realizzare qualcosa di specifico o di creare la condizione in cui trovare un ambiente consono allo sviluppo di progettualità. Per mia natura non concepisco lo studio d’artista come un luogo organizzato e allestito, preferisco gli spazi improvvisati che sono particolarmente adatti perché sono flessibili, non istituzionali e aperti alla sperimentazione. Proprio la loro natura informale favorisce libertà creativa, contaminazione tra idee e pratiche, e una relazione più diretta con i contesti e le persone, proprio come avviene nel laboratorio di Wurmkos.
Farmacia Wurmkos, Sesto San Giovanni (MI)
Appartamento privato dell’artista, Monza
Incontro per Ombra di tutti con ragazze e ragazzi del Centro Sociale La Resistenza, 2023, Ferrara. Ph Elisa Catozzi
Le opere
Patrizio Raso, Ombra di tutti (Falck), 2025, Sesto San Giovanni (MI).
Un abito collettivo, per agire la memoria di un paese che ricorda, resiste e determina un presidio di giustizia e democrazia.
Patrizio Raso, Dall’Ombra (Mariapia), 2020, Milano.
Essere presidio nell’ombra del monumento.
Patrizio Raso, Abitare le parole, 2023. Vista dell’istallazione nell’appartamento privato di Francesco Puppo. Realizzato durante la residenza A Cielo Aperto a cura di Bianco-Valente e Pasquale Campanella, Associazione Culturale Vincenzo De Luca, Latronico (PZ). Ph. Elena Zottola
Gli abiti raccontati, indossati e sudati in una atipica pratica atletica di cammino e lettura.
Patrizio Raso, Ritratti reali, 2019. Realizzato durante la residenza aperto 2019 - art on the border a cura di Giorgio Azzoni, Monno (BS).
Il “pezzotto” come un campo di relazione tra le persone.
Patrizio Raso / Baubaus, Una silla para mirarse, 2018. In Unlearning Barcellona a cura di Maria Rosa Sossai, Istituto Italiano di Cultura, Barcellona (Spagna). Ph. Marco Passaro
All’interno delle corsie di un supermercato, un’azione di disegno rallentata e collettiva introduce una sospensione del ritmo, restituendo attenzione ai luoghi.
Patrizio Raso / Baubaus, Dal segno degli altri, 2018. Un momento del workshop sulla mostra Palaeontographica a cura di Museo Wunderkammer allo Spazio Archeologico Sotterraneo del SAS, Trento
Un’azione a più mani di un immaginario crescente: un segno in espansione, un disegno in divenire.
Patrizio Raso / Baubaus, Gazeta Baubaus, 2017. Giornale Baubaus realizzato per il progetto The Art of the Process: Social Entrepreneurs in Albania a cura di Valentina Bonizzi, COD Prime Minister’s Office, Tirana (Albania).
Guardarsi / Ombre / Scambio
Patrizio Raso / Baubaus, Sono Alberi, 2017. Workshop sulla mostra A latere di Mario Gorni e Zefferina Castoldi a cura di Pasquale Campanella e Simona Bordone, Farmacia Wurmkos, Sesto San Giovanni (MI)
A latere è un appuntamento altrove, oltre ogni centralità.
Patrizio Raso / Baubaus, Qui non si dorme mai – l’arte oltre l’orario d’ufficio, 2016, Careof DOCVA, Milano.
Lo spazio espositivo come luogo domestico, giaciglio dove trascorrere la notte.
Patrizio Raso / Wurmkos, Bandiera del vento, 2016, in Voice Off con Museo Wunderkammer, 41° Festival-Pergine Spettacolo Aperto, Sala Maier, Pergine Valsugana (TN)
Aspettare, guardare, incontrare i segni e accoglierli nel vento.