Ritratto di Stefano Serretta di Fabrizio Cicconi 

fauna d'arte

Stefano Serretta racconta l'intimità rubata e la repressione del presente

Francesco Stocchi e Gabriele Sassone

Con il ciclo STRESS e la collaborazione con l’Archivio Aldo Mieli, l’artista affronta i temi della libertà e della memoria collettiva, per un’arte che non sia solo decoro ma resistenza critica

Nome e cognome: Stefano Serretta

Luogo e anno di nascita: Sampierdarena, 1987

Gallerie di riferimento e contatti social: C+N Canepaneri / @stefano_serretta

 

L'intervista

Intervista realizzata in collaborazione con Anna Setola

  

A che cosa stai lavorando?

Ha da poco inaugurato la mostra collettiva Haunting Spells. Fare mondi altrimenti, a cura di Arnold Braho presso la C+N Gallery CANEPANERI e ispirata all’opera di Claudio Costa. Per l’occasione ho presentato la serie in corso STRESS, realizzata in collaborazione con l’Archivio Aldo Mieli di Carrara e avviata durante una residenza presso lo spazio Tiresia. STRESS, un ciclo di incisioni su lastre di marmo, riflette sulla pratica dell’intimità al di là di definizioni e generi. Oggi il piacere mi pare alfabetizzato e indicizzato, lontano da una reale libertà e ridotto spesso a merce di scambio. Emotivamente ci si imbatte in persone che capitalizzano le esperienze invece di viverle nella loro contraddittoria intensità. La privacy, nell’epoca del “capitalismo della sorveglianza”, è una risorsa sempre più rara. Non a caso il progetto si intitola così: lo stress è innanzitutto il mio, ma credo sia largamente condiviso. L’archivio mi ha aiutato a disperdere l’autorialità in una frammentazione di pratiche che attraversano secoli e culture, talvolta più libere di quanto non siamo oggi. Al di là delle dichiarazioni roboanti di chi lucra su una presunta riscoperta del corpo, credo che oggi viviamo un periodo di frustrazione e repressione diffusa.

  

Qual è la funzione dell’arte oggi?

Quella che riesce a esercitare: della stock option quando va bene, del complemento d’arredo quando va male. Vorremmo fosse un martello per scolpire il mondo, ma a volte fatica persino a fungere da specchio in cui rifletterlo. Sia chiaro, sono parte del problema. Un caro amico di Sampierdarena, con cui facevo graffiti, un giorno mi ha detto: “Tutto molto bello, eh, ma non ho ancora capito chiaramente che cosa fai”. Una maggiore chiarezza d’intenti potrebbe essere il ponte per riconnettere l’arte all’invenzione del quotidiano, trascinandola oltre l’investimento e/o la decorazione.

 

Che ruolo gioca l’ironia nel tuo approccio artistico?

Bella domanda, non so se sia più ironico o cinico, dipende dai giorni e dal mio mood ballerino. Mi piace la frizzantezza di un pensiero antagonista e laterale, anche contraddittorio – postura a cui l’arte ha pieno diritto. È però un’ironia che rimane a livello concettuale, non cerca un corrispettivo mimico. Le risate mi spaventano: sono antichi meccanismi di difesa, spesso feroci. Ogni volta che mi rivedo in una foto in cui sorrido, mi sembra di avere il volto cristallizzato in un ghigno disperato. Diciamo che coltivo una composta ironia, o un cinismo moderato.

 

Com’è organizzata la tua giornata?

Oddio, dipende davvero, ho tante routine diverse a seconda che il fulcro sia il lavoro in studio, l’insegnamento in accademia o il sacrosanto cazzeggio. Tengo molto al tempo libero, sebbene sia poco, e cerco di non far ruotare tutto intorno alla produzione. Otium et negotium: lo si era capito già duemila anni fa. Essendo un soggetto “complicato” ho bisogno di una struttura, perché non opero bene nel caos. La vera sfida è quindi esercitare le priorità che il mio cervello ballerino tenta sempre di eludere, saltellando da una curiosità all’altra. D’altronde, “la libertà è una forma di disciplina”.

  

Qual è, per te, il confine tra arte e attivismo?

La censura e la procura.

 

In che modo hai iniziato a fare l’artista?

Per tentativi. Dopo una breve (e infelice) parentesi come rapper da parchetto, ho trovato la mia identità nei graffiti. Sono stati dieci anni di libertà vandalica in cui ho elaborato un’idea di urbano sperimentando tecniche e strategie di comunicazione senza mediazioni. A un certo punto quel contenitore non bastava più, e sono traslato verso l’arte “contemporanea”, cercando di conservare un’attitudine stradaiola e uno sguardo sporco e naïf, aperto alla contaminazione, a un approccio interdisciplinare. Parallelamente ho sempre coltivato il mio feticcio maggiore: lo studio della storia e l’analisi geopolitica.

 

Quali sono i tuoi riferimenti visivi e teorici?

Da storico ho trovato in Marc Bloch il mio principale referente teorico: Apologia della storia è, direi, un testo liminare. L’approccio degli Annales è stato un riferimento concreto e cruciale per lavori come Relapse, Sutra 69-79 e Mystics & Statistics.

Sul piano dell’analisi, l’immagine è il mio fulcro investigativo. Penso al 2001—il G8 (vissuto da genovese a 13 anni), le Torri Gemelle, su cui ho incentrato tesi magistrale e varie pubblicazioni e i Buddha di Bamiyan. Tutti eventi in cui l’immagine ha avuto un ruolo decisivo, anticipando spesso le istanze del presente. Se devo citare un’opera: 9/12 Frontpages di Hans-Peter Feldmann.

Un artista che sintetizza tutto questo è Mark Lombardi: l’ho scoperto a Kassel nel 2012, quando ero studente dell’accademia in cui ora insegno. Ricerca e analisi rigorosa, formalizzazione impeccabile, biografia a modo suo peregrina: Mark aveva tutte le carte in regola per diventare un’ossessione, e così è stato.

  

Che cos’è per te lo studio d’artista?

Casa fuori casa. Al momento condivido lo studio in zona Ponte Nuovo con Federico Tosi e Sebastiano Sofia: una safe zone, crocevia di amici. Personalmente, ho un carattere più improntato alla collaborazione che alla competizione, lo spazio dello studio permette lo sviluppo di questo tipo di attitudine.

Parafrasando Margaret Mead, la civiltà inizia con la cura. L’antropologa indicava come primo segno di civiltà un femore rotto e poi guarito: in natura, con una gamba rotta sei spacciato. Provenendo da crew e centri sociali, credo che essere “umani” significhi innanzitutto saper fare squadra e prendersi cura l’uno dell’altro. Per me lo studio parte da questo.

   

Come si sviluppa il tuo rapporto con l’archivio e la memoria collettiva?

Li reputo materia viva. Del presente, preso così com’è, non so che farmene. Politicamente, se cerchiamo di capire qualcosa di quello che succede, credo che dovremmo guardare indietro almeno entro i cent’anni, e lì l’archivio ci viene incontro e aiuta (se sappiamo interrogarlo) a costruire contro-narrazioni per resistere alla propaganda del real time. La memoria collettiva è facilmente modificabile e falsificabile, serve una costante rimessa a verifica. Oggi, per esempio, sembra essere tornato in auge il feticismo per il pelatone: libri, serie, busti, adunate, fiamme tricolori al governo, vediamo fascisti ovunque. Ma nell’allarmismo generale quasi nessuno ricorda il biennio rosso e il ruolo dei padroni nell’armare la mano dei fascisti per scongiurare la collettivizzazione dei sistemi di produzione, qui come in Germania contro Rosa Luxemburg. Si evita di tracciare il fil rouge fra i padroni di ieri e quelli di oggi (industria, finanza, new tech) che usano il cane da guardia fascista per schiacciare i lavoratori (parola sparita dall’agenda delle sinistre in cravatta) ed erodere il ceto medio. La memoria collettiva è un territorio conteso. Come per ogni lotta, anche in quella di classe lo scontro, fosse anche solo dialettico, è spesso inevitabile. Per questo, nel mio lavoro sto dando sempre più spazio (soprattutto con la scrittura) al racconto di realtà come il CALP di Genova: per ricordare che c’è sempre, oggi come ieri, chi esiste e resiste, in direzione ostinata e contraria, alla violenza del capitale.

  

Le opere

  

Stefano Serretta, Percorsi di Resistenza, 2024, poster (ed. 100), 50 x 70 cm

  

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Stefano Serretta, Relapse!!! #3, 2021, installazione site specific, Palazzo Ducale, Genova

 

 

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Stefano Serretta, Sutra 69-79 (Brescia 28 maggio 1974 strage di Piazza della Loggia), det. da Sutra 69-79, 2022, giornale e installazione site specific

  

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Stefano Serretta, Mark, 2025, incisione su marmo di Carrara, 40 × 40 cm

  

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Stefano Serretta, FURYO #7, 2025, incisione su marmo di Carrara, 160 × 120 cm

 

 

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Stefano Serretta, Sutra 69-79 (Scontri tra autonomi e polizia, 14 maggio 1977, via De Amicis, Milano), 2022, inchiostro, acrilico e pantone su carta, 35 x 50 cm

   

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Stefano Serretta, Sutra 69-79, 2022, installazione site specific, Villa Arson, Nizza

   

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Stefano Serretta, fr. #012 - [A. Ginsberg, Love poem on theme by Whitman], 2024, incisione su marmo di Calacatta, 30 x40 cm

    
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Stefano Serretta, FURYO. failed utopia: requiem for a youthful opposition, 2025, installazione site specific, SPAZIOC21, Reggio Emilia

    

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Stefano Serretta, Mystics & Statistics #2, inchiostro su carta, det. da rubrica pubblicata su Frankenstein Mag. Numero 10

   

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