Yona Friedman, le molte vite di un utopista verticale che sognava città totali

Dal kibbutz alle nuove tecnologie passando per l’edilizia sostenibile nelle shanty town che fece innamorare Indira Gandhi (ma pure la Parigi della Hidalgo lo copia)

Manuel Orazi

Questo articolo è stato pubblicato nel primo numero del Foglio Arte, il mensile del Foglio dedicato all'arte, in edicola ogni ultimo venerdì del mese. Il prossimo numero sarà pubblicato venerdì 28 febbraio 2020.


 

Yona Friedman è una figura particolarmente sfuggente per ragioni in parte biografiche e in parte teoriche: compare all’improvviso sulla scena alla metà degli anni ’50 per poi eclissarsi circa quindici anni dopo, salvo poi ricomparire intorno al 2000 grazie al mondo dell’arte contemporanea. Al di là dei periodi di esaltazione critica e di fisiologica rimozione – cosa che è avvenuta per tutti i grandi autori – l’architetto ungherese si è avventurato in territori inesplorati sia nella sua disciplina sia in altre: ad esempio è forse l’unico architetto al mondo ad aver pubblicato due libri di fisica teorica. Amico e interlocutore di Karolyi Kerenyi e di scienziati come Ilya Prigogine, ha vissuto in tre continenti e in questo periodo si trova a Los Angeles dove vive sua figlia Marianne.

 

Nato col nome di Janos-Antal a Budapest nel 1923, sopravvissuto ai rastrellamenti nazifascisti solo perché imprigionato dalla Gestapo come oppositore politico e non in quanto ebreo (venne liberato dall’Armata Rossa durante le caotiche giornate del Capodanno 1944 descritte magistralmente in Sándor Márai, Liberazione, (Adelphi), dopo un anno trascorso come profugo a Bucarest riuscì infine ad arrivare a Haifa dove, dopo un periodo trascorso in un kibbutz, riprese gli studi di architettura per laurearsi finalmente dopo un’altra interruzione degli studi per la guerra d’indipendenza di Israele del 1948 – era addetto alla progettazione di trincee. L’esperienza della vita in comune nel kibbutz e in seguito lo studio e l’insegnamento presso il politecnico Technion a “Haifa la rossa” (così chiamata perché tradizionalmente più multietnica e di sinistra fra le grandi città israeliane) hanno permesso di vivere a Friedman un momento unico: quello di un paese fondato sull’immigrazione, benché selettiva, e quanto di più vicino a una “società senza classi” si potesse immaginare. Quando Martin Buber in Sentieri in utopia, pubblicato in ebraico nello stesso anno in cui arriva Friedman (1946), scrive che “non è lecito definire utopistico qualcosa in cui non abbiamo ancora messo alla prova la nostra forza. Io dichiaro la mia fede nella rinascita della comunità […] Una collettività organica non si comporrà mai di individui, bensì soltanto di comunità piccole e piccolissime: un popolo è comunità nella misura in cui ha un contenuto comunitario”, si leggono conclusioni del tutto congruenti con la teoria del “gruppo critico” formulata da Friedman in Utopie realizzabili trent’anni dopo, ovvero il più grande insieme di uomini con cui il buon funzionamento di un’organizzazione dotata di una struttura definita può ancora essere garantito e il paternalismo, dunque, evitato.

 

Quando poi Yona Friedman partecipò, da architetto israeliano non invitato ufficialmente, al CIAM di Dubrovnik del 1956, era uno sconosciuto. Di lì a pochissimi anni il suo principio de L’architecture mobile e i suoi progetti di Ville spatiale per un’intensificazione urbana in verticale saranno accolti con estremo interesse e pubblicati sulle principali riviste dell’Europa ancora alle prese coi problemi della ricostruzione e con il terrore del sovrappopolamento che indussero i più a concepire progetti sempre più a grande scala. Per questo Friedman si trasferì a Parigi e iniziò un intensissimo periodo di ricerca anticipando e influenzando le neoavanguardie emergenti come gli inglesi Archigram o i Metabolisti giapponesi. Anni dopo, Reyner Banham definirà gli anni Sessanta come l’età della megastruttura, ovvero della progettazione a scala urbana di grandi strutture polifunzionali ed estendibili ad alta tecnologia, mentre Manfredo Tafuri individuerà “un’accademia dell’utopia”, in cui inscrivere anche Friedman, non ultimo da Rem Koolhaas che in Junkspace lo ha giudicato come l’emblema delle spensierate avanguardie neofuturiste: “L’urbanisme spatiale di Yona Friedman (1958) fu emblematico: la GRANDE DIMENSIONE fluttuava su Parigi come una coperta metallica di nuvole, con la promessa di un possibile rinnovo urbano ‘totale’, ma vago. Eppure non atterrava mai, non si metteva mai a confronto, non rivendicava mai il posto che le spettava: era critica come decorazione”. Eppure Friedman non si è mai sentito né un visionario né un utopista, quanto un ricercatore di soluzioni per l’emergenza abitativa e l’approvvigionamento alimentare, problemi che al contrario di tanti architetti engagé aveva vissuto in prima persona durante la Seconda guerra mondiale e dopo come profugo. Le sue pioneristiche idee di agricoltura urbana sospesa sopra i tetti di Parigi presto verranno resi obbligatori per legge dal sindaco Anne Hidalgo!

 

In ogni caso, con la fine della stagione della megastruttura Yona Friedman si è defilato, come tanti altri, ma per esplorare nuove possibilità progettuali do-it-yourself ad esempio negli Usa, dove collabora con Nicholas Negroponte al primo software di auto-progettazione o ai programmi Unesco per un’edilizia sostenibile nelle shanty town africane, sudamericane e indiane – Indira Ghandi stampò centinaia di migliaia dei manuali friedmaniani d’istruzione su come costruirsi una casa con tecniche semplici e materiali locali, esperienze da cui ricaverà il libro L’architettura della sopravvivenza, Bollati Boringhieri.

 

Riscoperto come altri a molti anni di distanza, l’architetto e teorico franco-ungherese come si diceva è stato poi rivalutato dalla cultura artistica contemporanea: si vedano le partecipazioni di Friedman a Documenta di Kassel nel 2002 o alle Biennali d’Arte di Venezia del 2003, 2005 e 2009, su invito di curatori come Catherine David, Hans Ulrich Obrist e Daniel Birnbaum. In particolare Obrist è un curatore che non ha fatto mai distinzioni tra artisti, architetti e designer, col rischio a volte di fare qualche confusione specie con figure affascinanti ma problematiche come Friedman. Di certo non sarà di molto aiuto il catalogo della Galleria Minini, distribuito da Walther König, dall’emblematico titolo Yona Friedman, Untitled, che accompagna la mostra “Yona Friedman. Sculpting the Void” a cura di Maurizio Bortolotti presso la Galleria Massimo e Francesca Minini di Milano e Brescia, aperta fino al 14 marzo. Nessun disegno riporta infatti un titolo né una datazione, rendendo impossibile la comprensione dei cicli cui appartiene come quelli delle fiabe africane tratte da Leo Frobenius che ispirarono i film d’animazione che Friedman realizzò con la defunta moglie Denise Charvein all’inizio degli anni ’60. Peccato.

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