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La guerra che passa sotto i cavi
La minaccia russa ai fondali marini britannici non è un’allarmismo militare
Le parole del capo della Marina britannica non hanno il tono della propaganda né quello della profezia. Quando Gwyn Jenkins avverte che la Russia è pronta a colpire cavi e gasdotti sui fondali marini, non sta immaginando uno scenario futuribile: sta descrivendo un’opzione operativa reale, già sperimentata, già affinata, già disponibile. Non si tratta di scenari ipotetici da analisti, ma di capacità concrete che possono essere mobilitate in qualsiasi momento. Ed è proprio questo il punto che dovrebbe inquietare l’occidente più di qualsiasi esercitazione militare.
L’intervista rilasciata al Financial Times racconta una minaccia che non ha bisogno di carri armati o missili per produrre effetti strategici enormi. I fondali marini sono oggi una delle vere infrastrutture critiche del mondo globalizzato: lì passano i cavi internet, lì scorrono gas e dati, lì si concentra una vulnerabilità sistemica di cui dipendono economie, sicurezza, comunicazioni, consenso. Colpire quei nodi significa paralizzare senza dichiarare guerra, destabilizzare senza assumersene apertamente la responsabilità. Ogni singolo cavo reciso o pipeline interrotta ha impatti immediati su mercati, servizi essenziali e comunicazioni globali.
Il riferimento all’unità Gugi – forze speciali russe addestrate al sabotaggio subacqueo in acque profonde – chiarisce un altro aspetto spesso rimosso nel dibattito europeo: Mosca non improvvisa. Investe, pianifica, attende. E soprattutto lavora sulle zone grigie del diritto internazionale, su quel confine ambiguo tra pace e guerra che l’occidente continua a interpretare come una garanzia, mentre per il Cremlino è un’opportunità. Questa attenzione al dettaglio e alla tempistica mostra quanto la strategia russa sia sistematica e studiata da anni.
Non è un caso che Jenkins parli di una “combinazione pericolosa”: regime aggressivo, capacità tecnica, volontà politica. E’ esattamente la definizione di una minaccia strategica, non episodica. E riguarda non solo il Regno Unito, ma tutta la Nato, perché quelle infrastrutture sono condivise, interconnesse, comuni. Ogni stato europeo che ignora questa vulnerabilità contribuisce involontariamente a un rischio collettivo. Il problema, per l’Europa, non è solo difendere i fondali. E’ accettare che la guerra moderna non inizia con una dichiarazione solenne, ma con un’interruzione di servizio. E che continuare a chiamare “ibrido” ciò che è già conflitto rischia di essere non prudenza, ma cecità strategica.