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Foglio Ai

L'AI non sta distruggendo il lavoro in generale, ma l'inizio della carriera

Automatizzando compiti ripetitivi e di base, l'intelligenza artificiale spinge le aziende a privilegiare esperti capaci di supervisionare la macchina, lasciando neolaureati e junior in un limbo di competenze teoriche senza esperienza pratica

L’idea di fondo del pezzo del Wall Street Journal è semplice e per questo fastidiosa: l’intelligenza artificiale non sta distruggendo il lavoro in generale, sta distruggendo soprattutto il lavoro all’inizio della carriera. Non l’operaio esperto, non il manager, non il professionista con anni di esperienza, ma il junior, il neolaureato, l’assistente, quello che un tempo imparava facendo le cose noiose. Fogli Excel, ricerche preliminari, prime bozze, controlli ripetitivi. Oggi quelle mansioni sono esattamente ciò che l’AI sa fare meglio, più in fretta e a costo quasi zero.

 

Qui c’è il primo effetto concreto sul lavoro: non è vero che l’AI elimina il bisogno di persone, ma è vero che cambia radicalmente da dove si entra. Le aziende continuano ad avere bisogno di giudizio, responsabilità, conoscenza del contesto. Ma, come osserva il WSJ, quando l’AI automatizza i compiti di base, le organizzazioni tendono a preferire lavoratori già esperti, capaci di supervisionare, correggere, integrare l’output della macchina. Il risultato paradossale è che i giovani, storicamente più aperti alla tecnologia, sono oggi quelli più preoccupati: non perché l’AI li renda inutili, ma perché li rende “non necessari” nel percorso tradizionale di apprendimento.

 

Questo è il punto che vale la pena discutere, anche fuori dagli allarmi facili. Per decenni il lavoro ha funzionato come una scala: gradini bassi, ripetitivi, poco pagati, ma utili a imparare il mestiere. L’AI sta segando i primi gradini. E se togli i gradini bassi senza costruirne altri, non ottieni un mondo più efficiente: ottieni un mondo più chiuso. Con carriere che iniziano già “in alto”, ma solo per chi ha accesso a formazione, reti, contesti privilegiati.

 

L’editoriale del WSJ suggerisce una via d’uscita che è meno ideologica di quanto sembri: smettere di pensare all’AI come a un semplice strumento e iniziare a ripensare l’architettura delle carriere. Se l’AI fa il lavoro sporco, allora i junior devono fare altro: non meno lavoro, ma lavoro diverso. Supervisione dell’AI, controllo di qualità, apprendimento del business accanto ai senior, esposizione precoce alle decisioni vere. Qui entra in gioco il secondo effetto sul lavoro: il tempo conta meno della competenza dimostrata. Se l’AI accelera i processi, le aziende possono permettersi – o sono costrette – a valutare le persone non per anzianità ma per capacità reali. Questo è potenzialmente liberatorio, ma anche rischioso: senza percorsi strutturati, il merito rischia di diventare arbitrio. Per questo il WSJ insiste su programmi intenzionali di mentoring, su carriere “AI-native”, su metriche nuove. Non è ottimismo tecnologico: è consapevolezza organizzativa.

 

C’è poi un terzo effetto, più culturale. L’AI spinge il lavoro umano verso ciò che non è automatizzabile: giudizio, strategia, relazione, responsabilità. Ma queste cose non si imparano da sole. Se l’AI elimina il lavoro ripetitivo, non elimina il bisogno di imparare a pensare. E questo vale per tutti i settori: finanza, consulenza, media, sanità, industria. Ignorarlo significa creare una generazione sospesa, troppo qualificata per fare lavori elementari, troppo inesperta per essere assunta. Affrontarlo significa riprogettare il patto tra imprese, giovani e competenze. Il vero rischio, quindi, non è un futuro senza lavoro. E’ un futuro senza inizio. Ed è su questo che l’AI ci obbliga a smettere di parlare in astratto e a fare, finalmente, politica del lavoro nel senso più concreto del termine.