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Essere ottimisti, nel 2025, si può. Per rispetto dei fatti

In un’epoca in cui il pessimismo è sinonimo di consapevolezza, riconoscere i progressi reali – anche in tempi difficili – è un gesto razionale, non emotivo. Il cambiamento è possibile, anche quando sembra che nulla funzioni

Essere ottimisti nel 2025 è diventato un gesto controcorrente. Quasi una provocazione. In un’epoca in cui il pessimismo è percepito come prova di intelligenza, di profondità morale, di consapevolezza, dire che le cose possono andare meglio sembra una forma di irresponsabilità. E invece è vero il contrario: oggi l’ottimismo, se ancorato alla realtà, è una postura adulta. Non emotiva, non consolatoria, ma razionale. Un indizio utile arriva da una fonte che non può essere accusata di buonismo: The Economist. Nel suo tradizionale numero di fine anno, il settimanale britannico non ha scelto il “paese dell’anno” in base alla felicità, alla potenza o alla propaganda, ma secondo un criterio più interessante: chi è migliorato di più. Non chi è perfetto, ma chi ha fatto passi avanti reali in condizioni difficili. E’ un cambio di sguardo che dice molto del nostro tempo.

Il 2025, visto da lì, non è un anno da rimuovere. E’ stato attraversato da guerre, tensioni commerciali, instabilità politica, ritorni di nazionalismi. Ma è stato anche un anno in cui diverse società hanno dimostrato una capacità sorprendente di resistenza e correzione. The Economist cita casi diversi tra loro, ma accomunati da un dato: le istituzioni, quando reggono, funzionano più di quanto il racconto pubblico ammetta. Prendiamo la Corea del sud, che ha respinto una grave minaccia autoritaria senza scivolare nel caos. O il Brasile, che per la prima volta nella sua storia recente ha punito un tentativo di colpo di stato, dimostrando che la democrazia non è solo un rituale elettorale ma un sistema che sa difendersi. O ancora il Canada, che ha scelto la sobrietà tecnocratica al posto del populismo urlato. Poi c’è l’Argentina, laboratorio estremo e controverso di riforme economiche dolorose ma misurabili: inflazione drasticamente ridotta, povertà in calo, bilancio sotto controllo. Nessun miracolo, nessuna garanzia di successo definitivo, ma un’evidenza: cambiare rotta, anche dopo decenni di errori, è possibile. Ed è proprio questa possibilità a essere sistematicamente rimossa dal racconto catastrofista. La scelta finale di The Economist è ancora più sorprendente: la Siria. Non perché sia diventata un paradiso, ma perché nel 2025 è oggettivamente meno infernale del 2024. Caduto il regime di Assad, con tutte le incognite del caso, milioni di persone hanno ricominciato a vivere una quotidianità imperfetta ma reale. Non è un’ode, è una constatazione: anche dopo l’abisso, esistono risalite parziali. E contano. L’ottimismo di cui c’è bisogno oggi non è quello delle favole. E’ l’ottimismo che distingue tra declino irreversibile e crisi governabili. Che sa che il mondo resta pericoloso, ma non per questo immobile. Che rifiuta l’idea – comodissima – secondo cui “è tutto già scritto” e “va tutto peggio comunque”. Essere ottimisti nel 2025 non significa negare le guerre, le ingiustizie, le disuguaglianze. Significa rifiutare la narrazione secondo cui nulla funziona, nessuno impara, nessuna istituzione tiene. Significa prendere sul serio i dati, non solo le percezioni. E accettare una verità scomoda per i professionisti del disincanto: il mondo non sta migliorando ovunque, ma sta migliorando da qualche parte. E da lì vale la pena ripartire.

Testo realizzato con AI