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Cosa può insegnarci Warren Buffett, l'investitore più celebrato del Novecento

Il suo vero lascito non è un portafoglio da copiare, bensì un metodo semplice e controcorrente: aziende comprensibili, possesso eterno e pazienza come arma vincente. Una lezione contro l’ansia del presente

Nel momento in cui Warren Buffett si avvicina al ritiro, i suoi detrattori tornano a dire che la sua è una storia irripetibile, figlia di un’altra epoca, buona per le celebrazioni ma inutile per il mondo iperaccelerato di oggi. E’ un errore di prospettiva. Perché Buffett non insegna a copiare un portafoglio, ma a costruire un metodo. E soprattutto insegna a resistere a quasi tutto ciò che oggi viene premiato: la fretta, l’ostentazione, il rumore, l’idea che il successo sia una questione di colpi di genio più che di coerenza.

 

Buffett ha costruito la sua fortuna su un principio che sembra banale e invece è rivoluzionario: comprare aziende comprensibili, tenerle a lungo, lasciare lavorare il tempo. In sessant’anni di carriera Berkshire Hathaway ha reso in media circa il 20 per cento annuo, contro il 10 per cento dell’S&P 500. La differenza non sta in un’intuizione miracolosa, ma nella continuità. E’ la dimostrazione che il capitalismo non è solo arbitraggio rapido, ma pazienza organizzata.

 

Ai suoi critici, Buffett ricorda che la semplicità non è superficialità. Ha sempre rifiutato i settori che non capiva, anche quando sembravano inevitabili. E’ rimasto lontano dalle bolle, dalle mode, dalle narrazioni salvifiche. Quando tutti correvano, lui aspettava. Quando tutti vendevano, lui comprava. Non per eroismo, ma per disciplina. In un mondo che scambia l’innovazione con l’azzardo, Buffett insegna che il rischio vero è non sapere cosa si sta facendo.

 

C’è poi una lezione morale, spesso ignorata. Buffett non ha mai nascosto che il capitalismo funziona solo se resta credibile. Ha criticato un sistema fiscale che permetteva a lui di pagare meno della sua segretaria. Ha donato in vita oltre cento miliardi di dollari, ha promosso il Giving Pledge, ha trasformato la filantropia in un impegno pubblico e verificabile. Non per espiare una colpa, ma per affermare un principio: accumulare ricchezza non esonera dalle responsabilità. Anche sul piano culturale Buffett è un antidoto all’epoca dell’ego ipertrofico. Vive nella stessa casa da decenni, non ostenta lusso, non confonde il valore con il prezzo. Considera il denaro un modo per tenere il punteggio, non per definire l’identità. In un capitalismo sempre più narcisistico, è una lezione scomoda: si può essere immensamente ricchi senza trasformarsi in un personaggio.

 

Infine, Buffett insegna qualcosa anche a chi contesta il capitalismo: che i mercati funzionano meglio quando sono noiosi, prevedibili, regolati da regole chiare e da una fiducia di fondo nelle istituzioni. Il suo ottimismo sull’America non è ideologico, è statistico: nel lungo periodo, dice, chi innova, investe e rispetta le regole viene premiato. Non sempre subito, ma quasi sempre alla fine. Forse è proprio questo che infastidisce i suoi detrattori. Buffett non promette scorciatoie, non offre redenzioni istantanee, non vende rivoluzioni. Propone qualcosa di più difficile: il tempo, la coerenza, la responsabilità. In un’epoca che vive di accelerazioni, è una lezione profondamente controcorrente. Ed è proprio per questo che vale la pena ascoltarla.

 

Testo realizzato con AI