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Solo i codardi tollerano i teorici della cospirazione. Un articolo da leggere a Natale

Il complottismo non è spirito critico ma paura della complessità. Dietro il fascino dei complotti non c’è ribellione, ma vigliaccheria e l’incapacità di accettare una realtà imperfetta e senza regia

Il Natale è il tempo delle luci, dei riti che si ripetono, delle tavole lunghe e delle conversazioni che, prima o poi, scivolano sempre lì: “Ma secondo te dietro questa cosa chi c’è davvero?”. E’ il periodo dell’anno in cui il bisogno di senso si fa più forte, e proprio per questo il complottismo trova terreno fertile. Perché promette una spiegazione totale, immediata, rassicurante nella sua brutalità. Niente è casuale, niente è complesso: qualcuno manovra tutto. Fine della storia. Eppure, se c’è un articolo che vale la pena leggere a Natale, quando si ha più tempo per pensare e meno voglia di urlare, è quello – o meglio, lo spunto – offerto da Ben Shapiro in un intervento che ha fatto molto discutere negli Stati Uniti. Il titolo è brutale: solo i codardi tollerano i teorici della cospirazione. Ma il punto non è la provocazione. Il punto è la diagnosi.

 

Il complottismo non è una forma radicale di spirito critico. E’ il suo contrario. Non nasce dall’amore per la verità, ma dalla paura di affrontarla. Il complottista non accetta che il mondo sia complicato, che gli errori possano essere frutto di incompetenza, che le tragedie possano avere cause banali, che il potere sia spesso disordinato, persino stupido. Preferisce immaginare una regia perfetta, perché una menzogna coerente è più consolante di una verità imperfetta. Il metodo è sempre lo stesso, ed è ormai familiare: “io non affermo nulla, ma faccio domande”; “non sto accusando nessuno, però…”; “strano che nessuno ne parli”. E’ una tecnica antica, oggi potenziata dai social: insinuare senza provare, evocare senza nominare, colpire senza assumersi la responsabilità di ciò che si dice. Non è coraggio, è vigliaccheria mascherata da anticonformismo.

 

Shapiro, che certo non è un tenero liberal da salotto, individua il cuore del problema in un punto scomodo: la responsabilità morale di chi parla in pubblico. Chi ha un microfono, un canale, un pubblico, non ha solo il diritto di esprimersi, ma il dovere di essere chiaro, preciso, onesto. Dire “loro” senza dire chi. Parlare di “sistema” senza descriverlo. Alludere a complotti senza portare prove. Tutto questo non è ribellione: è una forma di manipolazione emotiva. C’è qualcosa di profondamente anti natalizio in questa visione del mondo. Il Natale, al contrario, è l’idea che la realtà – pur imperfetta, fragile, spesso ingiusta – sia comunque abitabile. Che la verità conti. Che le parole abbiano un peso. Che la responsabilità individuale esista. Che il bene non nasca da rivelazioni segrete, ma da gesti concreti, faticosi, quotidiani. Per questo tollerare il complottismo non è apertura mentale. E’ pigrizia morale. A Natale, quando si parla di pace, di fiducia, di speranza, forse vale la pena leggere – e rileggere – un articolo che ricorda una cosa semplice e scomoda: la verità non è mai garantita. Va difesa. E difenderla richiede una virtù sempre più rara. Non l’indignazione, non il sospetto permanente, ma il coraggio della realtà.