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La Cassazione contro il processo alle intenzioni sull'urbanistica

Niente corruzione senza prove certe. Le chat non sono colpe, il conflitto di interessi non è reato. La giustizia giudica i fatti, non le ombre

La sentenza della Cassazione che annulla senza rinvio le misure interdittive nei confronti di Giancarlo Tancredi non è solo una decisione su un singolo caso. E’ un testo pedagogico, quasi didattico, che spiega cosa non può essere considerato prova penale quando si parla di urbanistica, discrezionalità amministrativa, rapporti tra pubblico e privato e – soprattutto – corruzione. E’, di fatto, un prontuario contro l’idea che basti un sospetto ben raccontato per trasformarsi in colpa. Il primo punto fermo riguarda il concorso nel reato di corruzione. La Cassazione ribadisce che, per accusare un terzo (che non riceve utilità) di aver partecipato a un accordo corruttivo, non basta dimostrare che abbia avuto rapporti, contatti o convergenze di interesse con altri soggetti. Serve qualcosa di molto più preciso: la piena consapevolezza dell’esistenza di un patto corruttivo e la volontà di agevolarne l’esecuzione. Senza questa coscienza del “do ut des”, il contributo del terzo resta penalmente irrilevante. Tradotto: non esiste il reato di “ingenuità politica” o di “fiducia mal riposta”.

Secondo passaggio chiave: la corruzione non coincide con il conflitto di interessi. La Corte è netta nel dire che la violazione dell’obbligo di astensione, pur essendo un fatto grave sul piano amministrativo o etico, non è di per sé prova di corruzione. Il conflitto di interessi può generare sospetti, ma non può essere automaticamente elevato a indizio penale. Farlo significherebbe trasformare la corruzione in una sorta di abuso di ufficio mascherato, proprio mentre il legislatore ha scelto consapevolmente di ridurre e poi abrogare quella fattispecie. E’ un passaggio cruciale: la giurisdizione non può colmare con interpretazioni creative i vuoti lasciati (volontariamente) dalla politica.

Terzo punto: il rapporto sinallagmatico. La Cassazione insiste su un concetto spesso evocato e raramente dimostrato: per parlare di corruzione deve esserci una correlazione rigorosa, un nesso causale stretto, tra utilità promessa o ricevuta ed esercizio della funzione pubblica. Quando l’utilità assume la forma di un incarico professionale lecito, regolare e realmente svolto, il livello di prova richiesto è massimo. Non si può dedurre l’accordo corruttivo ex post, solo perché quell’incarico “poteva tornare utile” o perché ha creato una situazione ambigua. Altrimenti, ogni professionista che abbia avuto un doppio ruolo diventerebbe automaticamente sospetto. Quarto insegnamento: la discrezionalità amministrativa non è una presunzione di colpevolezza. La Cassazione smonta l’idea che il sostegno politico a progetti di rigenerazione urbana, l’interlocuzione con investitori, l’esplorazione di strumenti come il partenariato pubblico-privato siano indizi di malaffare. Al contrario, ricorda che queste attività sono previste dalla legge e coerenti con il buon andamento dell’amministrazione. Criminalizzarle ex post significa confondere il governo della complessità con la trama del complotto.

Quinto punto, decisivo anche sul piano mediatico: le chat non sono una scorciatoia probatoria. La sentenza analizza con attenzione i messaggi citati nell’ordinanza impugnata e ne ridimensiona drasticamente il valore. Le chat mostrano contatti, opinioni, talvolta interferenze discutibili, ma non dimostrano la conoscenza di un patto corruttivo né la partecipazione consapevole ad esso. Il rischio, ammonisce implicitamente la Corte, è quello di trasformare il frammento comunicativo in una sceneggiatura accusatoria, buona per i titoli ma fragile sul piano giuridico.

Infine, c’è una lezione di sistema: le misure cautelari non possono diventare pene anticipate. In assenza di gravi indizi di colpevolezza, evocare il “peso politico”, il “radicamento” o la “rete di relazioni” dell’indagato non basta. Altrimenti la cautela si trasforma in sanzione simbolica, utile forse a placare l’opinione pubblica, ma incompatibile con lo stato di diritto. Messa insieme, questa sentenza dice una cosa semplice e controcorrente: nel diritto penale non si giudicano le atmosfere, non si puniscono le intenzioni presunte, non si colmano con l’immaginazione i buchi della prova. E’ una risposta secca al circo mediatico giudiziario, che vive di allusioni, titoli e narrazioni morali.