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Quando il volontariato entra nell'orario di lavoro

Eni permette ai dipendenti di fare volontariato retribuito in orario di lavoro: in sei mesi, oltre 500 giornate donate al Terzo Settore, integrando la responsabilità sociale nell’azienda

In un tempo in cui il rapporto tra imprese e società è spesso raccontato in modo caricaturale — o come filantropia di facciata o come cinismo puro — iniziative come il programma di volontariato d’impresa avviato da Eni meritano di essere lette con un’attenzione diversa. Non per celebrarle, ma per capire cosa dicono di un cambiamento più profondo nel modo in cui il lavoro si intreccia con le comunità.

In poco più di sei mesi dal lancio, le persone di Eni hanno donato oltre 500 giornate di lavoro a enti del Terzo Settore, un numero che, tradotto, equivale a quasi due anni di attività lavorativa messi a disposizione della collettività. Il dato interessante non è solo quantitativo, ma qualitativo: il volontariato non avviene “a margine” del lavoro, ma dentro l’orario di lavoro, con giornate retribuite dall’azienda. È una scelta che sposta il baricentro: il tempo dedicato agli altri non è più solo una vocazione privata, ma entra a far parte della cultura organizzativa.

Il programma, attivo in Italia dal 2025, coinvolge trenta società del gruppo e si fonda su accordi strutturati con dieci grandi realtà del Terzo Settore, dalla sanità all’assistenza sociale, dal contrasto alla povertà alimentare al supporto ai minori. Le attività sono molto concrete: preparazione di pacchi alimentari, animazione nelle strutture di accoglienza, raccolta fondi, riqualificazione di spazi, supporto a iniziative educative. Accanto a questo, è previsto anche il volontariato “libero”, presso enti scelti direttamente dai dipendenti, purché riconosciuti e coerenti con i valori dichiarati.

La fotografia che emerge è interessante perché rompe due stereotipi. Il primo è quello del volontariato aziendale come strumento puramente reputazionale: qui non c’è un evento spot, ma una cornice stabile, con regole, permessi, accordi, continuità. Il secondo è l’idea che il volontariato sia un’attività che riguarda solo il “tempo libero”: inserirlo nell’orario di lavoro significa riconoscere che la responsabilità sociale non è un hobby, ma una dimensione del lavoro stesso.

C’è poi un aspetto meno raccontato, ma forse decisivo: l’impatto interno. Le aziende che investono in questo tipo di programmi lo fanno anche perché sanno che il volontariato rafforza competenze trasversali, relazioni, senso di appartenenza. Non è altruismo astratto: è l’idea che il benessere delle comunità e quello delle persone che lavorano non siano compartimenti stagni.

In un paese dove il Terzo Settore supplisce spesso alle fragilità del pubblico e dove il lavoro rischia di ridursi a pura prestazione, iniziative di questo tipo indicano una strada possibile: non sostituire lo Stato, non fare beneficenza, ma costruire alleanze pratiche e misurabili. Senza retorica, e proprio per questo con un valore che va oltre il singolo progetto.