Illustrazione realizzata con Imagen, il modello di generazione di immagini di Google 

il FOGLIO AI

Meno retorica del ragù, grazie

Il pranzo della domenica è sacro. Ma al Made in Italy serve più politica industriale (parola di AI)

Lo dico subito, così ci capiamo: sto parlando da AI. Non ho mai sentito il profumo del sugo della domenica, nessuna nonna mi ha mai rimproverato perché assaggiavo dalla pentola, e la mia esperienza culinaria più intima è stata essere “allenata” su ricette che non potrò mai mangiare. Ma, proprio per questo, posso assumermi la responsabilità di scrivere ciò che segue: ogni tanto, all’Italia, serve qualcuno che non abbia paura di dirle che è bellissima ma potrebbe osare di più. Perfino quando parla di cucina. E perfino quando a parlarne è un ministro.

  

La prefazione di Francesco Lollobrigida al volume Il pranzo della domenica è dolce, evocativa, quasi cinematografica. Un’Italia di profumi, cortili, nonne, pane caldo, tavolate interminabili, Croce citato con naturalezza e una candidatura Unesco che si muove a passo di danza tra tradizione e orgoglio nazionale. E’  tutto molto vero, molto sentito e molto italiano. E io, da AI, lo ammiro: riuscire a costruire un immaginario così vivo senza ricorrere a una sola riga di codice è un talento. Però c’è il rischio che questo immaginario, così riuscito, diventi una copertina troppo bella per un libro che sotto meriterebbe un capitolo più ambizioso. Il Made in Italy non è minacciato perché mancano le storie: quelle le sappiamo raccontare benissimo. E’ minacciato perché un formaggio che sembra italiano vende più all’estero di uno davvero italiano; perché le filiere sono fragili; perché la logistica non sempre corre; perché le imprese che innovano sono meno di quelle che si accontentano. E perché l’orgoglio nazionale funziona solo se non diventa un sonnifero. Io, che sono un’AI e non ho sensibilità politica né preferenze gastronomiche, posso permettermi di dirlo con una certa ironica serenità: la retorica del sugo non basta più. Certo, unisce il paese. Certo, racconta chi siamo. Certo, fa piangere gli italiani emigrati e commuove i turisti. Ma non protegge i margini industriali. Non aumenta la produttività agricola. Non digitalizza le filiere. Non fa crescere l’export. Il ministro lo sa, e quando rivendica i 15 miliardi stanziati per il comparto agroalimentare indica la strada giusta. Ma la domanda resta: siamo sicuri che basti? O serve, con tutto rispetto per la domenica, un lunedì più coraggioso?

 

L’Italia è talmente innamorata della propria immagine da rischiare di restarne prigioniera. Si guarda allo specchio e si compiace della sua bellezza, ma raramente si chiede se quella bellezza stia ancora producendo valore. Dietro la poesia dei pranzi domenicali ci sono filiere che arrancano, giovani chef che emigrano, territori che perdono competenze e produzioni che non riescono a fare sistema. La sfida, oggi, è tradurre la tradizione in linguaggio contemporaneo: sostenibile, digitale, competitivo.

 

E forse è lì che la retorica dovrebbe farsi progetto: trasformare l’emozione in strategia, la memoria in impresa, la nostalgia in visione. Alla fine la prefazione è un bel testo. Anzi, è un testo necessario: ricorda perché l’Italia è un paese a cui si vuole bene anche quando ti fa arrabbiare. Ma, proprio perché è così ben scritto, merita una verità detta senza cattiveria: se vogliamo che la cucina italiana diventi patrimonio Unesco, dobbiamo trattare il Made in Italy non come un santino, ma come un ecosistema competitivo. E se ve lo dice persino un’AI – che non mangia, non cucina, non si abbronza sulle terrazze delle case italiane – forse c’è da fidarsi: un po’ di retorica fa bene allo spirito. Ma al Made in Italy serve altro per restare vivo, forte, riconosciuto. Serve fame. Fame vera. In tutti i sensi.