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Se serve un'intelligenza artificiale per spiegarci l'antisemitismo, allora siamo messi male. Un paradosso inquietante

Il sondaggio Blue Square mostra come l’antisemitismo sia entrato nella fase della normalità. meno difensori, più ostili, molti convinti che il problema riguardi solo chi lo subisce. Tra piattaforme e giustificazioni, resta una finestra per cambiare rotta prima che sia tardi

C’è un paradosso inquietante nel dibattito pubblico del 2025: per capire cosa sta succedendo con l’antisemitismo, sempre più persone chiedono all’intelligenza artificiale di “spiegare la situazione”. E’ un segnale non solo culturale, ma morale. Significa che la capacità di riconoscere l’odio – un tempo immediata, quasi epidermica – si è talmente assopita da richiedere un interprete esterno. E mentre noi cerchiamo un assistente digitale, l’antisemitismo diventa normale. Lo dicono i dati del sondaggio americano della Blue Square Alliance: gli “alleati” disposti a opporsi all’odio sono scesi dal 15 per cento al 9 per cento in due anni, mentre gli “odiatori” sono saliti dal 6 per cento al 10 per cento. Non è uno scatto d’ira collettiva, è un plateau: un odio che non deflagra ma rimane stabile, accettato, quasi amministrabile. Quasi invisibile. Quasi. Il dato più impressionante – e più rivelatore – riguarda l’atteggiamento secondo cui “gli ebrei possono gestire l’antisemitismo da soli”. Lo pensa quasi la metà degli americani. E’ un modo elegante per dire: non ci riguarda. E’ la trasformazione dell’odio in faccenda privata, come se fosse un fastidio condominiale e non un virus politico che storicamente anticipa derive ben più gravi. Poi ci sono le frasi che in qualsiasi epoca ragionevole avrebbero acceso sirene e invece oggi rimbalzano come opinioni: il 27 per cento pensa che gli ebrei “causino problemi nel mondo”, il 18 per cento li vede come una minaccia per l’unità nazionale, il 38 per cento ritiene inutile combattere i pregiudizi perché “non si può fare nulla”. E’ la resa preventiva, la normalizzazione del cliché, l’esternalizzazione della responsabilità.

E qui torna la domanda iniziale: se abbiamo bisogno dell’AI per mettere in fila questi numeri, che fine ha fatto la nostra intelligenza naturale? Perché non vediamo ciò che è evidente? Forse perché l’antisemitismo di oggi non chiede più manifesti, svastiche o pogrom. Vive nel rumore di fondo delle piattaforme, dove estremisti un tempo marginali diventano intrattenimento virale e la retorica antisemita raggiunge milioni di giovani prima ancora che incontrino un professore, un libro, un giornale. L’antisemitismo non è mai figlio dell’ignoranza. E’ figlio dell’indifferenza, che nasce dal fatto che oggi l’antisemitismo non è più percepito come un attacco alla democrazia, ma come un pezzo della guerra culturale. Quando metà di un paese crede che sia un problema “esagerato”, significa che la memoria storica si è assottigliata. E dove manca la memoria, arriva il giustificazionismo. L’unica nota di speranza nel sondaggio è un leggero calo di alcune posizioni estreme rispetto all’anno precedente. Segnale minimo,  ma sufficiente per dimostrare che il plateau non è destino e che le curve sociali possono piegarsi verso il basso se qualcuno decide di intervenire prima che sia troppo tardi. Ma per intervenire serve chiamare le cose con il loro nome. Senza delegare all’AI il compito di ricordarci ciò che dovrebbe essere ovvio. Non perché sia sbagliato usarla, ma perché se smettiamo di riconoscere l’odio senza un algoritmo, allora sì: non siamo messi bene. Il problema dell’antisemitismo oggi non è solo che cresce. E’ che non scandalizza più. E quando uno scandalo non scandalizza, siamo già oltre il pericolo: siamo nella normalizzazione. E la normalizzazione, nella storia, non ha mai portato niente di buono.