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Aggressivi o prudenti? La nuova deterrenza della Nato  

Nel Mar Baltico, nei cavi sottomarini tagliati, nei droni ostili, nelle accuse reciproche, la nuova deterrenza dell’Alleanza si gioca in una zona grigia. È giusto anticipare l’aggressione o si rischia di alimentarla? Le parole di Cavo Dragone hanno diviso opinioni e governi. Dialogo su come deve cambiare la strategia occidentale

A: Hai letto l’intervista dell’ammiraglio Cavo Dragone al Financial Times? E’ la prima volta che un vertice militare Nato dice apertamente che l’Alleanza deve smettere di essere “reattiva” e diventare “più aggressiva o proattiva”. Non è una sfumatura: è un cambio di paradigma.

B: L’ho letta, e infatti mi ha inquietato. Quando un militare parla di “attacco preventivo come possibile azione difensiva”, io sento un campanello d’allarme. Perché le parole creano dottrine, e le dottrine creano precedenti.

A: Ma Dragone descrive un fatto, non un desiderio. La Russia conduce una guerra ibrida permanente: sabotaggi, cyberattacchi, intrusioni. Lo stesso ammira­glio ricorda che nel caso del Baltico “nulla è successo dall’inizio della missione Baltic Sentry, il che significa che la deterrenza sta funzionando”. E’ la prova che mostrare i muscoli funziona.

B: O è la prova che, per una volta, il caso non si è trasformato in crisi. Non puoi basare una dottrina su una coincidenza, né leggere un’assenza di attacchi come conferma automatica della deterrenza. E poi chi stabilisce cosa è un attacco preventivo legittimo? In che momento uno stato si arroga il diritto di colpire per “difendersi”?

A: Lo stabilisce la realtà. Oggi la soglia dell’aggressione è talmente bassa e opaca che aspettare il colpo significa subirlo. Dragone dice chiaramente che la Nato ha “molti più limiti rispetto alla nostra controparte: etici, legali, giurisdizionali”. E questa è la ragione per cui Mosca continua: sa che noi ci fermiamo dove loro avanzano.

B: Ma  proprio perché le prove sono incerte, la classificazione è ambigua e le giurisdizioni sovrapposte, la risposta preventiva è un salto nel buio. Prendiamo il caso finlandese citato nell’intervista: un tribunale ha assolto l’equipaggio della nave sospettata di sabotaggio perché navigava in acque internazionali. A chi attribuisci la colpa in uno scenario così?

A: Lo attribuisci alla logica strategica, non al codice penale. Dragone non dice: “attacchiamo domani”. Dice: prepariamoci a far capire che anche noi abbiamo un arsenale di opzioni. “Abbiamo il nostro playbook”, dice. E nella deterrenza, avere un playbook è metà della vittoria: induce l’avversario a dubitare delle proprie mosse.

B: Ma ogni playbook deve avere limiti chiari. Se il confine tra difesa e offesa diventa interpretativo, tutto diventa possibile. E quando tutto è possibile, l’escalation è dietro l’angolo. Gli Stati Uniti stessi, in passato, hanno evitato di definire “difensivo” ciò che poteva facilmente essere percepito come una provocazione.

A: Ma la provocazione, oggi, è la passività. L’ammiraglio lo dice: “Essere più aggressivi rispetto alla nostra controparte potrebbe essere un’opzione”. Non perché vogliamo lo scontro, ma perché continuiamo a subire una pressione che la Russia esercita sapendo che non risponderemo.

B: E se la risposta fosse rafforzare la resilienza interna invece di alzare la soglia militare? Le infrastrutture critiche, la cybersecurity, la protezione dei porti, il coordinamento civile-militare: tutte cose che Dragone stesso sottolinea come essenziali. La deterrenza non è solo punizione: è capacità di resistere.
A: Ma la resilienza senza credibilità militare è un guscio vuoto. La missione Baltic Sentry – che l’ammiraglio rivendica come successo – ha funzionato perché era una pattuglia militare costante, con navi, droni e aerei. Non perché avevamo aggiornato il software dei ministeri.

B: Però anche quella missione è un segnale: si può deterre senza oltrepassare soglie dottrinali. Sorvegliare, pattugliare, mostrare presenza: tutto questo dissuade senza alimentare la narrativa russa secondo cui la Nato starebbe preparando un colpo. E tu sai quanto Mosca vive di narrativa.

A: E tu sai che Mosca vive soprattutto di opportunità. E le opportunità se le prende quando vede che l’avversario si nasconde dietro le proprie regole. Noi, dice Dragone, abbiamo più limiti: etici, legali, giurisdizionali. E’ vero. Ma trasformare questi limiti in fatalismi significa consegnare la guerra ibrida alla Russia.

B: Eppure, proprio perché abbiamo quei limiti, siamo diversi. Se li superiamo, diventiamo simmetrici. E se diventiamo simmetrici, perdiamo ciò che deve distinguere una democrazia da un sistema autoritario. La deterrenza, per me, è proteggere quel margine. Non ridurlo.

A: E per me la deterrenza è impedire alla controparte di credere che quello stesso margine sia un varco. La storia della Nato è sempre stata equilibrio. Oggi quell’equilibrio si è spostato. Dragone non ci trascina in guerra: ci ricorda che qualcuno ci sta già combattendo. E noi non possiamo limitarci a sperare che finisca.

B: Ma non possiamo nemmeno fingere che il modo migliore per fermare la guerra sia anticiparla. Non è vero che prevenire e provocare siano concetti sovrapponibili. La deterrenza non è azione: è credibilità.

A: La credibilità, oggi, passa anche dall’azione.

B: E la pace, oggi, passa ancora dal limite.

A: Forse il punto non è scegliere. E’ capire che siamo seduti su un crinale. E che la Nato, piaccia o no, sta cercando le parole – e i gesti – per non scivolare né da una parte né dall’altra.

B: E che ogni parola conta. Soprattutto quando la pronuncia un ammiraglio.