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La resilienza tranquilla di un marchio che ha rimesso a fuoco la propria utilità

Allemandi cresce non per miracolo, ma perché torna a svolgere bene la funzione per cui era nata: fare editoria culturale solida, riconoscibile, necessaria

La parte interessante di questa storia non è il trionfalismo, ma la normalità con cui un marchio culturale dato per appannato è tornato a funzionare. In un anno, i ricavi previsti superano i 5,5 milioni, quasi due milioni in più rispetto al budget preacquisizione; l’area libri è cresciuta del 105% e il Giornale dell’Arte del 36%. Numeri che colpiscono non perché eccezionali in astratto, ma perché ottenuti senza cambiare pelle: nessuna fuga in avanti, nessuna velleità di reinventarsi piattaforma, nessun abbandono del proprio mestiere.

La resilienza, qui, è un fatto operativo: rimettere ordine in catalogo, ricostruire una struttura editoriale chiara, rafforzare le competenze interne, ampliare la rete di autori e committenze. È così che si arriva a una previsione d’utile di circa 400mila euro, che non è la cifra che cambia un settore, ma è la prova che un brand può tornare sostenibile se trova una direzione credibile.

Anche le iniziative – dal bookshop dei “Tesori dei Faraoni” al successo del volume fotografico per le ATP Finals – mostrano un approccio semplice: scegliere progetti coerenti, non dispersivi, in cui la qualità editoriale generi valore reale.

In un mercato che ama le narrative della “rinascita spettacolare”, la storia di Allemandi funziona proprio perché non lo è. È un caso di manutenzione intelligente: prendere un’identità che esiste, rimetterla in condizione di lavorare, e lasciare che i numeri – quando ci sono – raccontino da soli la resilienza di un marchio che non si è lasciato travolgere dal rumore.