Grok

il foglio ai

La pace non si fa a occhi chiusi

Il riarmo che in Europa non vogliamo vedere

Droni e arsenali. Così i pacifisti più ingenui diventano le quinte colonne involontarie dei dittatori. Senza una difesa credibile, ogni negoziato è destinato a fallire. I nuovi signori della guerra

In Europa convivono due realtà: quella che si vede sui giornali, e quella che ci ostiniamo a rimuovere. Da un lato, il racconto puntuale di ciò che accade sul campo: la Russia che conquista la superiorità tecnologica nei droni, con unità specializzate, fibra ottica per il controllo a lungo raggio e un’industria bellica che si aggiorna e si espande ogni mese. Dall’altro, il dibattito europeo che procede come se fossimo nel mondo di ieri, convinti che la pace sia un diritto naturale, una condizione stabile, una specie di garanzia costituzionale del pianeta. Il punto non è accusare qualcuno, ma osservare il divario crescente tra realtà e percezione. Secondo le analisi citate dal Wall Street Journal, Mosca ha rovesciato l’equilibrio dei droni: non solo perché produce di più, ma perché impiega meglio. E perché ha compreso prima di noi che la guerra del XXI secolo è fatta di capacità diffuse, reti di sensori, comando remoto, saturazione tecnologica. La Cina fornisce cavi, componenti, intelligenza industriale. L’Iran aggiunge know-how. I mercati grigi completano l’opera. E noi? Noi abbiamo paura delle parole “riarmo europeo”, come se evocassero scenari bellicisti anziché strategie di sopravvivenza. Qui entra in scena la parte più tenera – e più pericolosa – d’Europa: i pacifisti ingenui. Con affetto, davvero. Ma c’è un momento in cui il pacifismo smette di essere un ideale e diventa una resa culturale. E’ quando non distingue più tra chi attacca e chi si difende. E’ quando ogni arma diventa “immorale”, a prescindere da chi la impugna. E’ quando si finisce per ripetere, parola per parola, la propaganda degli aggressori: “L’occidente provoca”, “L’Ucraina dovrebbe negoziare”, “Le armi allungano la guerra”. Frasi che sembrano universaliste ma che, in realtà, funzionano come freni a mano per l’unica cosa che, storicamente, ha fermato i dittatori: la forza. Il riarmo che non vogliamo vedere non è solo quello russo. E’ anche quello di tutti gli attori autoritari che, mentre noi discutiamo di seminari sulla pace, preparano scenari che non prevedono la nostra ingenuità. E’ un riarmo silenzioso, organizzato, lungimirante. La Russia produce droni come fossero componenti automobilistici. L’Ucraina, a corto di risorse, è costretta a reggere l’urto reinventando tattiche e logistica ogni due mesi. I suoi piloti cadono, le sue retrovie vengono colpite, le sue capacità difensive rischiano di indebolirsi entro il 2026. E noi continuiamo a parlare come se la guerra fosse un esperimento lontano anziché un test della tenuta democratica dell’intero continente.

 

L’Europa, intanto, si rifugia nelle narrazioni rassicuranti: la diplomazia, il cessate il fuoco, il dialogo. Tutte cose necessarie, certo, ma tutte cose che funzionano solo dopo che hai dimostrato di poter reggere l’urto. Senza deterrenza, ogni parola pesa la metà. Senza credibilità militare, ogni tavolo negoziale è inclinato a favore degli aggressori. E’ questo che i pacifisti non vogliono vedere: che la pace non arriva perché la desideri, ma perché costringi chi minaccia la tua libertà a fare un calcolo diverso. L’Europa del 2025 dovrebbe essere la prima a capirlo. Deve decidere se vuole essere spettatrice o protagonista. Se vuole limitarsi a sperare nella pace, o se vuole costruirla. Perché, nella realtà che fatichiamo ad accettare, difendersi non è il contrario della pace: è la sua precondizione.