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Due professori immaginari davanti all'intelligenza artificiale
Un dialogo inventato tra due docenti inesistenti, con idee opposte sull’uso dell’Algoritmo a scuola
Si incontrano in un corridoio qualunque, in una scuola qualunque. Sono due professori immaginari, creati solo per ragionare. Il professor Serra – figura costruita per rappresentare la cautela – e la professoressa Bianchi – personaggio inventato per dare voce a un approccio più aperto. Nessuno dei due esiste: è tutto fiction.
Serra: Sai qual è la verità? Da quando c’è l’intelligenza artificiale, mi sembra di non riconoscere più gli elaborati. Perfetti, levigati… ma senza vita. E allora mi chiedo: cosa resta della testa dei ragazzi?
Bianchi: Anche a me capita, ma non sempre è l’intelligenza artificiale. A volte è solo la pressione a essere impeccabile. Però capisco. Il rischio c’è. Per questo penso che dovremmo guardare meno al prodotto e più al percorso.
I due camminano lentamente, come se avessero bisogno di prendere tempo mentre parlano.
Serra: Percorso, sì. Però quando hai venticinque compiti davanti, non è facile capire chi ha ragionato e chi ha chiesto tutto a una macchina.
Bianchi: Infatti non basta correggere. Bisogna guardarli mentre costruiscono il loro lavoro: appunti, bozze, tentativi. L’AI non può sostituire quella parte lì. Li puoi seguire, fase dopo fase.
Serra si ferma davanti alla finestra. Il personaggio è stato pensato così: uno che osserva, che dubita, che teme di perdere qualcosa.
Serra: Temo che stiano perdendo la pazienza. Che tutto debba essere veloce, concluso, immediato. L’AI rende questa illusione ancora più forte: risposte pronte, niente incertezze.
Bianchi: Lo so. Ma proprio per questo possiamo usarla per spiegare cosa vale davvero. Dire loro: guardate cosa manca quando lasciate tutto alla macchina. Manca la vostra voce.
Serra: Ma se non vogliono averne una?
Bianchi: Molti la vogliono, eccome. Non vogliono essere copie. Hanno paura di non essere all’altezza della macchina, non di se stessi. E allora serve un contesto in cui possano sbagliare senza vergogna.
I due entrano in una sala professori altrettanto immaginaria. Nessuna scuola reale è coinvolta: questa scena esiste solo per far dialogare idee.
Serra: Sai cosa manca? La comunità. Prima le classi erano rumorose. Ora entrano e sono tutti chini sul telefono. Come fai a insegnare qualcosa a una persona isolata?
Bianchi: Con regole chiare. Io chiedo a tutti di parlare, almeno una volta per lezione. Non perché voglio sentire la loro voce, ma perché devono sentire quella degli altri. L’AI non ricrea questa dinamica.
Serra annuisce. Anche questa sua reazione è un elemento narrativo: serve a spostare il discorso, non a fotografare la realtà.
Serra: E il tempo? La valutazione? Non posso diventare un investigatore del linguaggio.
Bianchi: Nessuno te lo chiede. Ma se cambi la valutazione, cambia tutto. Più peso ai processi, meno ai compiti perfetti. Più dialogo, meno file consegnati e basta. L’AI funziona solo dove noi molliamo la presa.
Effettivamente, in questa fiction, Bianchi è il personaggio che suggerisce equilibrio.
Serra: E se un ragazzo usa l’AI e te lo dice? Lo punisci o lo ringrazi?
Bianchi: Lo ringrazio per l’onestà e poi gli faccio domande. Come ci sei arrivato? Cosa hai capito? Dove hai messo del tuo? Non si tratta di proibire. Si tratta di capire come usano lo strumento e guidarli.
La campanella risuona – ovviamente immaginaria anche quella.
Serra: Mi chiedo come sarà tra cinque anni. Avremo occhiali, auricolari, tutto invisibile. Come si farà a garantire una discussione reale?
Bianchi: Forse non si può garantire. Ma possiamo creare spazi dove la tecnologia non entra. Un’aula, per esempio. Un luogo dove si deve essere presenti davvero. E’ raro oggi, ed è proprio per questo che funziona.
Serra sospira, ma questa volta sorride.
Serra: Allora continuiamo così. Tu spingi, io freno. Magari è questa la soluzione.
Bianchi: Forse sì. Non serve un’unica strada. Servono due sguardi che si tengono d’occhio.
Prima di lasciarsi, Serra dice la frase che chiude questo scambio immaginario:
Serra: Sai cosa temo più dell’AI? Che smettano di pensare. E che non se ne accorgano.
Bianchi: Ecco perché siamo qui. Per farli accorgere.
E così si allontanano, due personaggi mai esistiti, creati solo per simulare un dubbio che attraversa molte scuole reali: come insegnare a restare umani, in un tempo in cui le macchine scrivono, leggono e rispondono più in fretta di noi. In fondo, anche loro stanno ancora imparando. Non solo a usare l’AI, ma a capirsi a vicenda, come se questa conversazione servisse più a loro che agli studenti.