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Il Foglio Ai
Lettera mai scritta di Viktor Orbán a Giorgia Meloni
“Non ci capiamo più”. Dietro l’abbraccio tra la premier italiana e il leader ungherese si nasconde un malinteso profondo
Cara Giorgia, tu mi accogli, mi riverisci, mi rispetti. Mi chiami “amico”, e io lo apprezzo. Ogni volta che ci incontriamo mi sembra di tornare in quella Europa che non mi vuole più ma che tu, con la tua gentilezza italiana, fingi di credere ancora una casa comune. Mi sorridi davanti ai fotografi, parli di valori, di radici, di identità. Eppure, appena ti giri, voti con gli altri contro di me. Su quasi tutto, Giorgia, siamo su fronti opposti. Tu difendi l’Ucraina, io dico che è tempo di negoziare. Tu credi che l’Unione europea, pur con i suoi difetti, sia un destino da riformare; io credo che sia un errore da contenere. Tu sogni di cambiare l’Europa dall’interno, io di resisterle da fuori. Eppure, eccoci qui, sempre insieme. Che ci facciamo, noi due, sempre insieme?
Dicono che siamo alleati naturali. Io, il nazionalista cristiano dei Carpazi; tu, la patriota mediterranea che non ha paura di pronunciare la parola Dio. Ma tu siedi nei consigli europei e mi lasci solo al tavolo, quando arriva il momento di decidere. Hai firmato tutte le sanzioni contro la Russia – tutte, una per una – mentre io tentavo di bloccarle per proteggere il mio gas e il mio consenso. Hai mandato armi a Kyiv, mentre io parlavo di pace e di imperi. E quando Bruxelles mi congela i fondi, tu, la mia amica, non dici una parola. Ti capisco, Giorgia. Hai bisogno di credibilità. Vuoi essere la premier di destra che non fa paura all’Europa. Ti serve mostrare che non sei Orbán. Che l’Italia non è l’Ungheria. Che tu sei sovranista a parole, ma atlantista nei fatti. Però ogni volta che mi sorridi, io vedo la contraddizione: vuoi tenermi come trofeo identitario, ma non vuoi pagare il prezzo politico di difendermi. Io lo so. Lo sento ogni volta che, davanti ai fotografi, inclini la testa come per dirmi “ci capiamo”. Ma noi, Giorgia, non ci capiamo più. Tu hai scelto di stare dalla parte dell’occidente, io di non scegliere affatto. Tu parli di libertà, io di sovranità. Tu vuoi un’Europa forte, io la voglio debole. Eppure ci abbracciamo, come se la storia potesse ancora illuderci di una comune battaglia.
Ti scrivo questa lettera che non ti spedirò, perché so che mi risponderesti con uno dei tuoi sorrisi diplomatici. Diresti che in fondo ci unisce il realismo, che i nostri popoli si somigliano, che c’è spazio per tutte le destre sotto lo stesso tetto. Ma non è vero. La tua destra vuole governare l’Europa; la mia vuole salvarsi da essa. Forse è per questo che mi inviti, mi fai accomodare e poi mi lasci lì, al margine della foto. Non sono io il problema, Giorgia: è l’illusione che possiamo ancora parlare la stessa lingua politica. Io credo nel muro, tu nella finestra. Io cerco la chiave di casa, tu il codice d’ingresso. E allora te lo chiedo, cara amica: che ci facciamo noi due, sempre insieme? Tu, che vuoi convincere Bruxelles che sei affidabile; io, che voglio dimostrare a Budapest che Bruxelles è un nemico. Tu, che sogni la guida dell’Europa; io, che sogno di liberarmene. Forse ci unisce soltanto la nostalgia: quella per un’Europa che non c’è più, fatta di bandiere, nazioni e discorsi solenni. Tu la rimetti a nuovo, io la tengo in ostaggio. Entrambi sappiamo che la partita è finita, ma continuiamo a giocarci accanto per non ammetterlo.
Con affetto (e una punta di rimpianto), Viktor