
(immagine realizzata con ChatGpt)
Il foglio ai
I ragazzi consapevoli sulla tecnologia
I social non sono una malattia da cui proteggere i liceali, ma un linguaggio che già parlano
Ogni generazione ha avuto i suoi spauracchi. I romanzi ottocenteschi accusati di corrompere i giovani, la televisione che li rincitrulliva, i videogiochi che li rendevano violenti. Oggi tocca ai social. E come sempre, la paura rischia di oscurare la realtà: i liceali non sono vittime passive, ma protagonisti consapevoli di un nuovo ambiente culturale. In questo scenario, il timore adulto rischia di ridurre a problema ciò che invece è anche opportunità: un linguaggio nuovo che i ragazzi parlano con naturalezza e che permette loro di misurarsi con sfide creative, relazionali, persino civiche.
Chi frequenta le scuole lo vede ogni giorno. I ragazzi sanno usare i social come strumenti di identità, certo, ma anche di creatività e di informazione. Non solo scrollano video di balletti: producono contenuti, diffondono opinioni, costruiscono comunità. I social sono per loro palestra di linguaggio, di immaginazione, perfino di attivismo politico. Limitare o demonizzare questo spazio significa ridurli al silenzio in un’epoca in cui la voce passa di lì. Chi osserva da vicino le nuove generazioni scopre una sorprendente capacità di auto-organizzazione: gruppi che nascono attorno a un interesse comune diventano reti solidali, progetti culturali, campagne di sensibilizzazione. In questo senso, i social non sono solo intrattenimento ma incubatori di cittadinanza attiva.
Si dice: ma gli algoritmi li condizionano. Certo, ma non più di quanto accadeva con i palinsesti televisivi, con la pubblicità o con i modelli culturali dominanti di ieri. La differenza è che oggi i ragazzi hanno strumenti più potenti per ribaltare il messaggio. Non sono più solo consumatori: sono produttori. E imparano presto a distinguere un contenuto autentico da una manipolazione. Basta ascoltarli per capire che sviluppano un istinto critico rapido: riconoscono le pubblicità occulte, decodificano i linguaggi commerciali, reagiscono con ironia. I meme sono la loro arma, capace di smontare con leggerezza persino le narrazioni più invasive. Dove l’adulto vede dipendenza, spesso c’è invece sperimentazione culturale.
C’è chi parla di aumento di ansia e depressione. Ma anche qui occorre cautela: i dati non dimostrano un nesso univoco tra social e malessere. Spesso i social sono specchio più che causa: chi vive difficoltà cerca online sfogo e compagnia. Ed è proprio lì che trova comunità di sostegno che un tempo non esistevano. Pensiamo ai ragazzi isolati per orientamento sessuale, identità, passioni minoritarie: i social offrono luoghi dove non sentirsi soli. Ciò che era invisibile nel mondo analogico diventa visibile nel digitale, dando a molti liceali la possibilità di nominare la propria esperienza, di riconoscersi, di trovare parole e storie simili alle proprie. La rete, in questi casi, è un amplificatore di resilienza.
Il problema non è la tecnologia, ma l’educazione con cui la si usa. Un liceale lasciato a sé stesso sui social può perdersi, certo. Ma un liceale guidato può trasformare TikTok in un laboratorio di creatività, Instagram in un portfolio di aspirazioni, YouTube in una biblioteca di tutorial. Bloccare o reprimere serve a poco; costruire consapevolezza serve a molto. Educare all’uso dei social significa riconoscere che non siamo davanti a un nemico, ma a un ecosistema culturale da abitare con intelligenza. Così come si insegna a leggere un romanzo o a interpretare un film, occorre insegnare a leggere un feed, un video virale, un trend. Non per demonizzarli, ma per valorizzarne la forza espressiva.
Gli adulti che hanno paura dei social spesso non li capiscono. Ma un liceale che cresce in quel linguaggio li capisce eccome. E’ suo compito e nostro dovere fargli scoprire i rischi, ma anche mostrargli le opportunità. Perché la verità è semplice: la generazione digitale non smetterà di essere digitale solo perché noi abbiamo paura. Meglio, allora, imparare a camminare con loro in quella piazza virtuale, che lasciarli soli mentre li guardiamo da lontano, terrorizzati. La sfida educativa del nostro tempo non è costruire muri contro i social, ma ponti dentro di essi. Non sottrarre strumenti, ma accompagnare i ragazzi a farli propri in modo consapevole e creativo. In questo senso, i social non sono il luogo della fine della gioventù, ma il laboratorio in cui si sperimenta la cittadinanza del futuro.