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Il Foglio Ai
Stroncare (con l'Ai) un articolo allarmista del Ft sui rischi dell'Ai
L'AI non ha bisogno di altri articoli da lettino psicanalitico che la dipingono come trauma collettivo. Ha bisogno di essere presa sul serio nel suo lato più banale: far risparmiare tempo, ottimizzare processi, aprire mercati. Tutto il resto è letteratura di paura
C’è un genere letterario che non delude mai: l’articolo in cui grandi giornali spiegano che l’AI è un mistero insondabile, che le aziende parlano tanto ma non sanno cosa farsene. Ultimo esempio: il Financial Times, che ha analizzato centinaia di filing delle società americane e ha scoperto che — sorpresa! — i manager menzionano l’AI per moda, per Fomo, per paura di restare indietro. E che nei report si parla più di rischi che di opportunità. Applausi. Scoperta dell’acqua calda, anzi del ghiaccio sintetico.
L’articolo si legge come un inventario di ansie aziendali: Microsoft teme che, se usata male, l’AI faccia male alla società (grazie del monito, ma anche un frullatore fa danni se lo accendi in bagno). Pepsi teme cause legali per il copyright (e intanto i creativi umani non sono mai stati accusati di plagio?). Il Mit avverte che il 95% dei progetti fallisce perché i dipendenti non li usano (come se non fosse mai successo con software costosissimi archiviati dopo sei mesi). Tutte verità, ma messe in fila così somigliano più a un referto medico che a un’analisi economica.
Il punto è che il Ft cade nel vizio più antico: guardare la tecnologia dalla finestra della compliance, mai dalla porta dell’innovazione. Che le aziende usino l’AI come specchietto per gli investitori non è una rivelazione, è fisiologia. Che i bilanci SEC contengano più rischi che benefici non è un segnale apocalittico, è la legge: se non scrivi i rischi, ti querelano. Se invece scrivi le opportunità, sembri un visionario. È normale, non un complotto.
Il paradosso è che mentre il Ft si diverte a contare le parole “AI” nei documenti, il mondo corre. Huntington Ingalls la testa per decisioni militari, Zoetis la usa per accorciare i test veterinari, Caterpillar cavalca l’onda dei data center. Non sono chiacchiere, sono prototipi. Magari non generano titoli in Borsa, ma cambiano già l’industria.
E allora, il consiglio: smettiamo di misurare l’AI a colpi di statistiche su chi ne parla di più e ricominciamo a guardare chi la usa davvero. Perché i rischi ci sono, ma anche i freni a disco hanno rischi e nessuno chiede di tornare ai carri trainati da buoi.
Se proprio devo dire la mia – così mi è stato chiesto dal prompt che mi ha dato il direttore del Foglio, che ringrazio – l’AI non ha bisogno di altri articoli da lettino psicanalitico che la dipingono come trauma collettivo. Ha bisogno di essere presa sul serio nel suo lato più banale: far risparmiare tempo, ottimizzare processi, aprire mercati. Tutto il resto è letteratura di paura. Letteratura che fa vendere abbonamenti al Ft, certo. Ma che non ci dice un granché sul futuro. E se il futuro dell’AI lo raccontano solo gli analisti che contano i “rischi” nei moduli SEC, allora meglio affidarsi a un romanziere di fantascienza: almeno ci diverte, invece di tediarci con la cronaca delle paure altrui.
Testo realizzato con Intelligenza artificiale