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Foglio AI
Il piano Blair per Gaza
La scommessa su un “day after” senza Hamas, tra autorità Onu e Anp. Realismo o illusione?
Un’autorità internazionale di transizione, un ruolo graduale per l’Autorità palestinese, una cornice Onu e una forza multinazionale di stabilizzazione. E’ questo il contenuto del piano elaborato da Tony Blair, sostenuto da Washington, di cui si discute oggi nelle capitali e che Matteo Renzi ha citato come esempio concreto di realismo politico. Il cosiddetto “piano Blair” nasce nei primi mesi della guerra tra Israele e Hamas e si propone come un progetto per il “day after”. Negli ultimi mesi è diventato anche uno strumento per cercare di avvicinare un cessate il fuoco e uno scambio di ostaggi. Con l’avallo di Donald Trump, Blair ha iniziato a lavorare con attori regionali e internazionali per disegnare una cornice che eviti il vuoto di potere nella Striscia.
Il cuore del piano è la creazione di una Gaza International Transitional Authority (Gita), istituita con una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu. La Gita avrebbe un consiglio direttivo di 7-10 membri, con la presenza di almeno un rappresentante palestinese qualificato, funzionari Onu, personalità internazionali con esperienza economica e una rappresentanza musulmana. Questo consiglio avrebbe poteri vincolanti su decisioni legislative, nomine e indirizzi strategici. Accanto alla Gita opererebbe la Palestinian executive authority (Pea), un organismo di tecnocrati palestinesi indipendenti incaricato di gestire i servizi quotidiani: sanità, istruzione, infrastrutture, giustizia, welfare. Sotto il Pea resterebbero i municipi di Gaza, una forza di polizia civile reclutata e verificata a livello nazionale, un’autorità giudiziaria presieduta da un magistrato arabo e un’unità dedicata alla tutela dei diritti di proprietà dei gazawi. Sul piano della sicurezza, il progetto prevede la nascita di una International stabilization force (Isf): una forza multinazionale con mandato internazionale incaricata di garantire l’ordine, prevenire la riorganizzazione di Hamas o di altri gruppi armati, interrompere il traffico di armi e sostenere le forze locali. Sul versante economico è prevista la costituzione di un’autorità pensata per attrarre capitali privati e avviare progetti con ritorni finanziari, affiancata da un organismo incaricato di gestire sovvenzioni e fondi pubblici. La relazione con l’Autorità nazionale palestinese è delineata in termini di coordinamento: il piano parla di una transizione “performance-based”, senza scadenze rigide ma legata alle riforme interne dell’Anp. L’obiettivo dichiarato è che, in prospettiva, tutta la Palestina torni sotto un’unica amministrazione dell’Anp, ma il passaggio non avverrebbe dal primo giorno.
Il documento precisa che “Gaza è per i gazawi”: non ci sono riferimenti a piani di spostamento della popolazione, e anzi viene prevista un’unità per garantire che eventuali movimenti volontari non compromettano i diritti di ritorno o di proprietà. Il piano affronta anche la tempistica: non ci sono scadenze immediate per il passaggio all’Anp, ma si parla di “anni, non decenni”. I costi stimati partono da 90 milioni di dollari per il primo anno, 135 per il secondo e 164 per il terzo, esclusi i fondi per l’Isf e per gli aiuti umanitari. Se ne parla perché è, al momento, l’unica proposta formalizzata e con l’appoggio di Washington che prova a rispondere alla domanda cruciale: chi governerà Gaza dopo Hamas? Israele ha espresso perplessità sulla centralità dell’Anp, Ramallah teme un ruolo marginale, e le monarchie arabe condizionano il loro sostegno a una prospettiva chiara di stato palestinese.