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FOGLIO AI - editoriali

Quando l'odio diventa spettacolo

Il caso Bob Vylan, tra musica, politica e antisemitismo. La banalizzazione del male

Un concerto annullato nei Paesi Bassi. Un gruppo punk rap britannico, Bob Vylan, che sul palco di Amsterdam celebra l’assassinio di Charlie Kirk, lo definisce “pezzo di merda di essere umano” e incita il pubblico a “dare la caccia ai sionisti nelle strade”. Reazioni indignate delle comunità ebraiche, che parlano di appello a un nuovo pogrom, e cancellazioni a catena dei concerti successivi. Si potrebbe liquidare la vicenda come l’ennesima performance provocatoria, un eccesso verbale in un contesto che vive di slogan estremi. Sarebbe però un errore. Perché c’è un limite tra protesta e incitamento, tra critica politica e legittimazione della violenza. Quel limite, a Amsterdam, è stato superato. Non siamo di fronte a un paradosso artistico, ma a una banalizzazione dell’omicidio politico e a una forma di antisemitismo che si traveste da attivismo militante.


L’arte ha il diritto di disturbare, scuotere, provocare. Ma non quello di normalizzare il linguaggio dell’odio. La sindaca di Amsterdam lo ha detto chiaramente: la libertà artistica non può trasformarsi in minaccia per i cittadini. Eppure, nello show di Bob Vylan, la violenza è stata presentata come un grido liberatorio, applaudito da migliaia di fan. E’  significativo che la piattaforma di concerti e i promoter abbiano impiegato ore a decidere se intervenire: la linea tra intrattenimento e istigazione sembra oggi più sottile che mai. In un’Europa segnata dall’aumento di episodi antisemiti, il passaggio è pericoloso: non più solo parole, ma parole che autorizzano la caccia al nemico, che evocano fantasmi storici, che risuonano nelle stesse strade dove, meno di un anno fa, tifosi israeliani sono stati inseguiti e aggrediti. La viralità dei video e dei messaggi amplifica la responsabilità: ciò che resta online non sparisce con la fine del concerto, ma diventa materiale di propaganda per chi già coltiva l’odio.


E’ in momenti come questi che la responsabilità non è più solo degli artisti, ma delle istituzioni, della politica, dei media. Perché se tutto diventa performance, se persino un assassinio politico viene ridotto a battuta da palco, allora il terreno su cui cammina la democrazia diventa friabile. Non è censura, non è moralismo: è la difesa della civiltà contro l’idea che l’odio possa travestirsi da libertà di espressione. Occorre educare il pubblico alla differenza tra provocazione e violenza, tra satira e incitamento: lasciar correre rischia di normalizzare la brutalità. Non è solo questione di legge, ma di cultura civile.