il foglio ai

L'AI ha trovato segni nascosti di coscienza in pazienti in coma prima dei medici

Un algoritmo sviluppato alla Stony Brook University riesce a cogliere micromovimenti facciali invisibili all’occhio umano, aprendo nuove prospettive diagnostiche, terapeutiche ed etiche

Immaginate di essere distesi in un letto d’ospedale. Apparentemente incoscienti, incapaci di muovere un dito o di rispondere a chi vi parla. Eppure, dentro la vostra mente, qualcosa veglia. Non potete dirlo, non potete comunicarlo. E’ l’incubo della cosiddetta coscienza nascosta: persone che sembrano in coma ma che, in realtà, sono vigili, prigioniere di un corpo che non risponde.

Per anni la medicina si è affidata a esami complessi come la risonanza magnetica funzionale per tentare di cogliere questi lampi di consapevolezza. Nel 2006 un esperimento clamoroso aveva mostrato che una paziente non responsiva era capace di immaginare di giocare a tennis quando i ricercatori glielo chiedevano. Ma queste tecniche sono lente, costose, riservate a pochi centri specializzati. Così, la diagnosi continua a basarsi su test clinici rudimentali: apri gli occhi, muovi la lingua, reagisci a un rumore improvviso. Troppo poco, troppo tardi.

Ed è qui che entra in scena l’intelligenza artificiale. In uno studio pubblicato su Communications Medicine, un gruppo di neuroscienziati della Stony Brook University ha sviluppato un sistema di analisi video, battezzato SeeMe, capace di registrare e interpretare micromovimenti facciali invisibili a occhio nudo. Come un radar di precisione, l’AI ha colto segnali minimi – un accenno di apertura degli occhi, un impercettibile movimento delle labbra – in decine di pazienti reduci da gravi traumi cranici.

Il dato che spiazza: in media, SeeMe ha individuato tentativi di risposta quattro-otto giorni prima che i medici se ne accorgessero.  Non un dettaglio: ogni giorno guadagnato può cambiare la prognosi, orientare decisioni difficilissime, avviare riabilitazioni precoci che fanno la differenza tra un recupero e una vita sospesa.

Chi minimizza l’IA come moda passeggera dovrebbe fermarsi qui un momento. Non stiamo parlando di filtri per foto, di testi scolastici generati in fretta o di gadget per ufficio. Parliamo della possibilità di restituire voce a chi non può parlare. Di offrire ai familiari un segnale in più prima di scegliere se continuare o sospendere cure. Di aprire uno spiraglio etico gigantesco: se l’IA riesce a decifrare i movimenti impercettibili del volto, un giorno potremmo addirittura chiedere a un paziente in coma di rispondere sì o no a una domanda vitale, attraverso un battito di ciglia riconosciuto dalla macchina.

C’è chi teme che l’IA sostituisca i medici. E’ un falso problema. Qui l’IA non rimpiazza nessuno, semmai completa, integra, rafforza. E’ uno strumento che vede dove l’occhio umano non arriva, che riduce margini di errore, che anticipa segnali preziosi. E’ come se un fonendoscopio digitale permettesse di udire battiti più deboli, o un microscopio svelasse dettagli invisibili: non minaccia la medicina, la potenzia.

Ecco perché liquidare l’intelligenza artificiale come “una moda da smanettoni” significa non capire la portata della rivoluzione in corso. La differenza tra un algoritmo che genera una poesia mediocre e un algoritmo che svela coscienza in un corpo silenzioso è la stessa che passa tra un giocattolo e un salvavita.

L’AI non è onnipotente, e non sempre ha ragione. Può sbagliare, come sbagliano i medici. Ma il punto è un altro: comincia a vedere ciò che noi non vediamo. E se c’è un campo in cui questo fa la differenza, è quello della vita e della morte. Dedicato a chi dubita dell’importanza dell’intelligenza artificiale: a volte, è questione di giorni guadagnati, di speranze restituite, di vite salvate.