IL FOGLIO AI

La trap fra pregiudizi e qualche spiraglio di comprensione

Dialogo tra un adulto nostalgico del rock e un adolescente cresciuto a pane e Sfera Ebbasta

Padre: Ti giuro che ci ho provato. Mi sono messo lì, cuffie, Spotify, ho digitato “Top Trap Italia”, e dopo trenta secondi ero già disorientato. Suoni sparati, autotune a manetta, testi che oscillano tra l’incomprensibile e l’imbarazzante. Ma che roba è?

Figlio: E’ musica, papà. Non la tua, magari. Ma è musica. E dice cose, anche se non sempre le stesse che volete sentire voi.

Padre: Ma cosa dice, esattamente? “Fumo, flexo, vesto Balenciaga”? “Non dormo mai, frate, ho i demoni in testa”? Io, ai miei tempi, ascoltavo Guccini e De André. Si parlava di emarginazione, d’amore, di politica. Oggi mi sembra solo una caricatura del successo.

Figlio: Vedi? E’ proprio questo il punto. Partite dal presupposto che la musica debba insegnare qualcosa, debba avere un messaggio universale, una morale. Ma la trap non è un insegnamento. E’ uno sfogo. E’ una cronaca. E’ la colonna sonora di una generazione che non cerca di salvare il mondo, ma di sopravvivergli.

Padre: Bella frase. Ma guarda che anche il punk nasceva da un disagio, anche il rap degli anni Novanta. Solo che avevano grinta, spessore. La trap mi sembra apatia travestita da ribellione. E’ tutto fumo e niente ciccia.

Figlio: Fumo ce n’è, è vero. Ma non è apatia. E’ consapevolezza. Lo capisci se ascolti davvero, senza pretendere di trovarci Battisti. Certi testi sono grezzi, certo. Ma dicono la verità di chi li scrive. Magari è una verità che fa paura, perché racconta un mondo in cui il successo è l’unica via d’uscita.
Padre: Ma non ti sembra un po’ deprimente, come orizzonte? L’unica salvezza è diventare famosi?

Figlio: No, è realistico. E raccontarlo è già un modo per reagire. Non è che tutti sognino la fama: molti sognano solo di uscire da un quartiere che li schiaccia.
Padre: Ma ci credi davvero, tu, a quel mondo di Rolex e Lamborghini? Perché a me sembra tutto finto. Gente di provincia che fa finta di essere uscita da Compton.

Figlio: Guarda che lo sappiamo anche noi. Non è che ci crediamo alla lettera. Ma ci identifichiamo. Perché dietro l’ostentazione, ci sono domande vere. Tipo: perché devo vivere in un paese che mi promette tutto e mi dà pochissimo? Perché se non faccio rumore nessuno mi sente? La trap non è finta. E’ teatrale. Come lo erano i vostri rocker col chiodo e le droghe.

Padre: E Fabri Fibra, allora? Quello sì che era rap. “Applausi per Fibra”, “Idee Stupide”, “Tranne te”. Era provocazione, ma con uno stile. Aveva una poetica, un’identità forte. Diceva cose che restavano. Oggi invece?

Figlio: Fibra è un gigante. Nessuno lo mette in dubbio. Ma anche lui, a suo modo, è stato il vostro “trapper”: uno che ha spaccato tutto con l’arroganza, con i testi sopra le righe, con un’estetica estrema. Solo che voi non ve ne siete accorti perché eravate giovani. Oggi lo ritenete quasi un classico, ma quando è uscito lo accusavano di distruggere il rap italiano. Come dite voi ora della trap.

Padre: Quindi stai dicendo che è un ciclo?
Figlio: Più o meno. Cambiano i suoni, cambiano i codici, ma il bisogno di esprimersi resta sempre quello.

Padre: Però una volta si cercava anche il confronto, il dibattito. Ora mi pare tutto più chiuso, come se ogni canzone parlasse solo al suo pubblico.
Figlio: Certo. Ogni generazione ha la sua musica sporca, sbilenca, criticata. La trap è il nostro Fibra moltiplicato per cento, velocizzato, frammentato, digitalizzato. E’ meno verbale, più sonora. Meno contenuto, più mood. Ma se ascolti bene, le emozioni ci sono. Solo che oggi il dolore non lo racconti: lo campioni.

Padre: Capisco. Ma resta un problema: questa roba sembra chiusa su sé stessa. Non c’è dialogo con gli altri mondi. E’ autoreferenziale. E spesso tossica.

Figlio: Non sempre. Ci sono artisti che fanno ponti. Irama, per esempio. Oppure Geolier, che parla in dialetto e tiene insieme la Napoli della strada e quella dei teatri. E anche i grandi cantautori lo hanno capito: Gazzelle ha collaborato con Sick Luke, Tananai con Rosa Chemical. Le barriere stanno cadendo. Siete voi che vi aggrappate a un’idea di purezza che non esiste più.

Padre: E i testi, però? Sono spesso ripetitivi, ossessivi. Non stancano?

Figlio: Perché pensate che i testi siano tutto. Ma noi non ascoltiamo trap per trarne insegnamenti morali o riflessioni sulla vita. La ascoltiamo per il beat, per l’energia, per il flow. E’ come un suono ambientale del nostro tempo. Voi cercavate i significati nascosti nelle canzoni, noi cerchiamo l’effetto. Il corpo, più che la testa. E non vuol dire che siamo più stupidi, vuol dire che siamo diversi.

Padre: Quindi dovrei rassegnarmi? Accettare che la musica oggi è questa, e che non è per me?

Figlio: Non devi accettare. Devi capire che non tutto ti parlerà, ma questo non significa che non parli a nessuno. Io non ti chiedo di amare la trap. Ti chiedo di ascoltarla con la curiosità con cui hai ascoltato i tuoi eroi. Ogni generazione ha i suoi suoni. I tuoi genitori pensavano che Guccini fosse un ubriacone che biascicava parole. Oggi è un poeta. Succederà anche con alcuni trapper. Non tutti, certo. Ma quelli bravi resteranno. Gli altri spariranno, come sempre.

Padre: Va bene. Facciamo un patto: tu mi fai una playlist di dieci pezzi che secondo te raccontano davvero qualcosa. Io la ascolto. Ma tu una sera ti siedi con me e ci guardiamo un live di Lucio Dalla. Senza pregiudizi.

Figlio: Affare fatto. E vedrai che qualcosa ti piacerà. Magari non sarà la musica a cambiare idea. Magari saremo noi.