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La Corte Ue detta i confini, ma la politica dovrebbe decidere
La Corte di giustizia dell’Unione europea: lista “paesi sicuri” legittima, ma sotto il vaglio dei giudici. Trasparenza e diritti fondamentali vincolano la politica migratoria italiana
Con la sentenza dell’1 agosto, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha tracciato un confine chiaro: gli Stati membri possono designare per legge i cosiddetti “paesi di origine sicuri”, ma questa scelta non può sottrarsi al vaglio dei giudici. La politica può decidere, insomma, ma solo entro margini stretti, definiti da criteri che altri — in questo caso, le corti — sono chiamati a sorvegliare.
Il caso nasce dal decreto legge 158/2024 con cui l’Italia ha incluso anche il Bangladesh tra i paesi da cui, salvo casi particolari, non si ha diritto alla protezione internazionale. Una scelta che riflette un orientamento politico chiaro: limitare l’accesso all’asilo a chi proviene da contesti che non giustificano, secondo lo Stato italiano, una domanda di protezione. Ma per la Corte questo non basta. Se l’elenco è scritto nella legge, resta comunque soggetto a verifica giudiziaria. E se le fonti informative su cui si fonda non sono trasparenti, il sistema non regge.
La Corte non nega la possibilità per un governo di decidere, ma chiede che ogni decisione sia documentabile, contestabile, argomentabile in sede giurisdizionale. E soprattutto stabilisce che non si può considerare “sicuro” un paese se non lo è per intere categorie di persone, come minoranze o gruppi vulnerabili. Non si possono fare eccezioni nell’eccezione.
È una sentenza formalmente equilibrata, ma politicamente significativa. Il messaggio è che l’interesse a governare i flussi migratori non può prevalere su quello, più alto, del controllo giurisdizionale sui diritti fondamentali. E questo vale anche quando la scelta è contenuta in una legge, cioè espressione diretta della volontà democratica.
Il risultato è che il governo italiano si ritrova con uno strumento più fragile del previsto. La lista dei paesi sicuri potrà continuare a esistere, ma non potrà essere blindata. I giudici, se riterranno, potranno mettere in discussione la sicurezza del Bangladesh, anche se sancita dalla legge. I richiedenti asilo potranno pretendere di sapere su quali documenti e fonti si basa la loro esclusione. E se quelle fonti non sono rese disponibili, o non reggono alla prova, la presunzione di sicurezza salta.
Si può discutere se questo equilibrio sia giusto. Perché se da un lato è ragionevole pretendere che anche le decisioni legislative siano fondate su dati accessibili e verificabili, dall’altro resta il dubbio che il potere democratico di uno Stato — nel definire la propria politica migratoria — venga in parte svuotato. Il rischio è che la valutazione politica venga spostata in tribunale.
Ciò che resta, al netto delle cautele, è che il governo non potrà più trattare la lista dei paesi sicuri come uno strumento di indirizzo politico incontestabile. Dovrà costruirla con maggior rigore, sapendo che potrà essere smontata pezzo per pezzo. E soprattutto dovrà accettare che in una materia così sensibile, come l’immigrazione, la scelta ultima non spetta solo alla politica. Una realtà con cui molti governi europei, non solo quello italiano, fanno sempre più fatica a convivere.