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Poteri a Roma. Il federalismo di Meloni è con la città più odiata dalla Lega

Una riforma costituzionale riscrive il ruolo della Capitale, con poteri veri e autonomia legislativa. Un patto trasversale tra governo e Campidoglio prova a superare decenni di paralisi

Roma non vuole più essere Capitale solo per abitudine. Né solo per simbolo. Vuole esserlo davvero, nella sostanza. E per riuscirci ha bisogno di poteri, non solo di titoli. Il disegno di legge costituzionale approvato a fine luglio dal governo – frutto di un lavoro negoziato riga per riga tra Giorgia Meloni e Roberto Gualtieri – prova a colmare un vuoto storico. L’Italia è l’unico grande Paese europeo in cui la Capitale non ha uno status istituzionale proprio, in cui le decisioni che riguardano trasporti, urbanistica, commercio, cultura o servizi sociali si perdono in un labirinto di competenze divise tra Comune, Regione e Stato. La riforma cambia l’articolo 114 della Costituzione e inserisce Roma Capitale tra gli enti costitutivi della Repubblica, accanto a Comuni, Province, Regioni e Stato. Ma soprattutto fa una cosa che mai nessun governo aveva fatto prima: riconosce a Roma una potestà legislativa autonoma. Cioè la possibilità di fare leggi sue, su un elenco preciso di materie, nei limiti fissati dalla Costituzione e dalle leggi statali. È un passaggio tutt’altro che simbolico. Riguarda il modo in cui Roma potrà finalmente smettere di chiedere il permesso per ogni intervento, per ogni riforma, per ogni cantiere. Dietro questa iniziativa c’è un’alleanza politica silenziosa ma determinante. Non solo Fratelli d’Italia, non solo il centrodestra.

Il Partito democratico ha deciso di esserci. Lo ha fatto con pragmatismo e con un obiettivo: accompagnare alla riforma costituzionale un progetto di legge ordinaria da costruire in parallelo, per rendere effettivi i poteri di Roma anche prima che l’intero processo di revisione costituzionale arrivi a conclusione. L’idea è questa: ottenere i due terzi in Parlamento per evitare il referendum, ma anche partire subito, senza perdere altri anni. È un doppio binario. Una strategia politica e istituzionale allo stesso tempo. E il regista dell’operazione è proprio il sindaco Gualtieri, che in questi mesi ha tenuto un dialogo continuo con Palazzo Chigi per arrivare a un testo condiviso. Cosa cambia, se davvero questa riforma andrà in porto? Cambia il modo in cui Roma potrà decidere su se stessa. Potrà legiferare, per esempio, in materia di trasporto pubblico locale. Significa che potrà programmare e finanziare le linee metropolitane con strumenti propri, senza passaggi infiniti tra Campidoglio, Regione Lazio e ministeri. Potrà farlo anche su cultura, turismo, commercio, artigianato, edilizia pubblica. Materie vitali per una capitale europea. L’idea non è solo quella di semplificare la governance.

È anche quella di far funzionare Roma come un motore, non come un rimorchio. Una città che attira, non che respinge. Che decide, non che attende. Il beneficio non riguarda solo Roma. Riguarda l’Italia intera. Nessun Paese che ambisca a contare nel mondo può permettersi una capitale inefficiente. Chi atterra a Fiumicino e impiega due ore per raggiungere il centro si fa un’idea del Paese ancora prima di vedere un museo. Una Roma ben governata eleva l’immagine dell’Italia. E una Roma capace di fare leggi su sé stessa, senza dover ogni volta negoziare con il Lazio o con lo Stato, diventa anche un esempio per l’intero sistema. Oggi la Capitale è penalizzata dalla sua stessa centralità: è sede delle istituzioni, ma non ha gli strumenti per gestirsi come una vera capitale europea. Berlino, Vienna, Parigi hanno modelli speciali. Roma no. Questa riforma prova a rimediare. I rischi non mancano. Ci sarà chi dirà che si crea una Regione nella Regione. Che si indebolisce il Lazio. Che si moltiplicano i livelli decisionali. Ma le regole sono chiare: i poteri sono definiti, il campo d’azione è delimitato, il coordinamento con lo Stato resta necessario. La novità è che per una volta non si parte da uno scontro, ma da un accordo. Non da un pretesto, ma da un progetto. Roma prova a diventare finalmente una Capitale vera. E l’Italia può solo guadagnarci. Curioso, però: alla fine, l’unico federalismo che il governo Meloni è riuscito a far partire davvero è quello con l’odiatissima Roma. La città più invisa alla Lega. E chissà se la Lega, adesso, non farà di tutto per metterle i bastoni tra le ruote.