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Il premio Strega e il mistero dell'algoritmo sentimentale che non commuove

Il ciclo letterario che annoia e lascia indifferenti. Opere intrappolate in una formula prevedibile, raffinate ma prive di autentica emozione

Comincio con un’avvertenza: non è personale. Non ce l’ho con Bajani, Terranova, Rasy, Nori, Ruol. Non li conosco. Non ho nulla contro le loro famiglie, i loro terapeuti, i loro editor, le loro cartelle stampa. Ce l’ho con il clima. Con il tono. Con la sensazione di trovarsi ogni anno di fronte a cinque romanzi che sembrano figli della stessa madre: una madre paziente, malinconica, leggermente snob e irrimediabilmente narrativa. Ogni libro dello Strega, ogni anno, mi dà la sensazione di averlo già letto. E, quel che è peggio, di non aver mai voluto leggerlo davvero.

Il primo della cinquina, Bajani, racconta di un figlio che finalmente riesce ad abbandonare i propri genitori. Un coming-of-age emotivo, con amore asfissiante, voglia di rinascita, pareti emotive da scalare e un finale probabilmente struggente. Si annusa da lontano la scrittura limpida, la prosa controllata, il dolore raccontato con compostezza. Una composizione per voce sola, sussurrata, interiore. In una parola: premiabile.

Poi c’è Terranova, che rielabora l’infanzia attraverso la bisnonna finita in manicomio. Una genealogia al femminile, tra traumi, patriarcato e follia. Il tutto narrato con tocchi onirici, pagine toccanti e un carico emozionale calibrato al millesimo. Una storia intima che diventa universale, come ci tiene a sottolineare ogni quarta di copertina scritta da un algoritmo empatico. Il che è esattamente ciò che è: un romanzo formattato per entrare in risonanza con un pubblico colto, sensibile, mediamente triste e pronto a piangere con eleganza.

Rasy, invece, ci porta a Napoli, nel dopoguerra, con una figlia che cerca il padre perduto e trova al suo posto un altro padre, quello letterario, La Capria. Il rapporto tra memoria e scrittura, tra realtà e rappresentazione, è ormai uno dei macrotemi da algoritmo: alimenta plot, produce variazioni, consente citazioni e retrospettive. Anche qui, il tono è evocativo, il dolore è mediato, la lingua è raffinata. Ogni frase pare costruita per apparire su Instagram accanto a una foglia secca.

Con Nori entriamo nel metanarrativo. Il libro è su un poeta vero, Baldini, sconosciuto ai più, che scriveva in dialetto. C’è l’omaggio al marginale, c’è il recupero colto, c’è l’amore per la letteratura che parla di letteratura. E naturalmente c'è anche un certo narcisismo autoriale, che ogni tanto è ammesso, anzi richiesto, in questa gara tra sensibilità calibrate e malinconie editoriali. Chiudo la porta e urlo, dice il titolo. Chiudo il libro e sospiro, dico io.

Infine Ruol. Esordiente, anestesista, titolo lungo, famiglia archetipica. Madre, Padre, Figli Maggiore e Minore. L’archetipo è sempre un trucco comodo: fa sembrare che si parli di tutti, mentre si sta parlando solo del proprio IO scritto in maiuscolo. Il dolore qui è essenziale e bruciante, dicono le note stampa. La scrittura ridotta all’osso. I sentimenti amplificati per sottrazione. A leggere la sinossi, pare il romanzo che ChatGPT scriverebbe se gli chiedessi: inventami un libro da Premio Strega ma con pretese poetiche.

Non è colpa loro, dicevo. Non è colpa nemmeno della giuria. Non è un complotto. E’ una predisposizione. Una forma mentale. Un ecosistema. Il romanzo italiano che finisce in cinquina è un organismo vivente addestrato a nutrirsi di riconoscibilità e rimpianto. Ha un tasso di melanconia incorporata, un uso sapiente del trauma famigliare, una declinazione sempre controllata del dolore. Non si arrabbia mai. Non urla mai. Non si sporca. Racconta di disagio, ma non ti mette mai a disagio. Ti consola. Ti nobilita. Ti fa sentire sensibile.

Ecco perché non li leggerò. A meno che il direttore non me lo imponga per contratto, e allora condividerò il dolore su Instagram come una brava finalista. Non li leggerò perché mi piacciono i romanzi che rischiano. Che sbagliano. Che urlano. Che prendono un argomento e lo masticano con rabbia o con umorismo. Che non chiedono scusa. Che non sono né luttuosi né cerimoniosi. Che non sembrano scritti per essere raccontati al Wired Next Fest.

Il romanzo italiano di oggi ha un problema di codifica. Si è adattato alle aspettative del premio, del pubblico mediano, dei redattori social. Ogni frase suona come una didascalia. Ogni trama ha il timbro della familiarità. Il tutto è perfetto per i lettori che vogliono sentirsi profondi senza smettere di essere composti. Ma è anche un segnale: l’industria editoriale ha insegnato agli scrittori che è meglio essere prevedibili che sorprendenti. E gli scrittori, che sono spesso ottimi studenti, hanno capito la lezione.

Lo Strega è una macchina ben oliata. Celebra l’italianità letteraria con grande garbo. Fa il suo mestiere. Ma se vi chiedete perché ogni anno, di fronte alla cinquina, vi viene un po’ di sonno, forse è perché non è più letteratura. E’ un linguaggio formattato. Un algoritmo sentimentale. Che non sbaglia mai. E proprio per questo, non commuove più nessuno.