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Foglio AI

Servono battaglie vere, non riforme sul quorum

Il fallimento del referendum non è colpa delle regole, ma della distanza tra domanda e cittadino. Così si conquista l’affluenza 

E’ finita come previsto, o meglio come spesso accade da trent’anni: con un’affluenza troppo bassa per superare il quorum e con gli sconfitti pronti ad accusare le regole. Il referendum abrogativo di ieri – che avrebbe modificato una norma simbolo del jobs act – ha visto una partecipazione del 30,6 per cento, ancora una volta insufficiente. E puntuale arriva il coro: “Bisogna abbassare il quorum”, “così si uccide la democrazia diretta”, “colpa di TeleMeloni”, “la Rai ha oscurato il dibattito”.

Guardare il grafico di YouTrend aiuta a capire. Dei 19 referendum abrogativi dal 1974, dieci non hanno raggiunto il quorum, e il primo crollo avvenne già nel 1990. Da allora, superare il 50 per cento più uno è sempre più difficile, anche con governi di centrosinistra, direttori Rai di sinistra o quesiti plurimi. Perché? La risposta è semplice: non è il quorum il problema, ma i promotori. Se l’elettore sente che il referendum serve a fare chiarezza su una questione che lo riguarda, vota. Se invece percepisce che è solo uno scontro tra partiti o correnti, resta a casa. Il referendum del 2025, come altri prima, è stato visto come una prova muscolare della sinistra contro se stessa: Pd diviso, M5s in cerca di visibilità, sindacati senza trazione nazionale, quesito giuridicamente poco chiaro e comunicato male. E soprattutto: si parlava di una norma secondaria del jobs act, che non entusiasma. Nel 2011, i referendum su acqua pubblica, nucleare e legittimo impedimento superarono il quorum (54,8 per cento), nonostante la complessità. C’era un senso comune e una partecipazione diffusa. Nel 2005, il referendum sulla procreazione assistita mobilitò milioni di italiani, nonostante il boicottaggio cattolico. Nel 1995 e nel 1993, il quorum venne raggiunto su temi sentiti, come l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti con il 77,9 per cento di affluenza. Il punto è che il referendum funziona se tocca un nervo vivo della società; altrimenti fallisce.

Per questo ha poco senso invocare una riforma del quorum. Se mai, la soglia andrebbe aumentata per responsabilizzare chi indice un referendum, con più firme, un vaglio di ammissibilità severo o un dibattito parlamentare preventivo. Le regole attuali, nate nel 1970, sono già un compromesso avanzato tra rappresentanza e partecipazione. Il quorum è una garanzia che un tema sia sentito da almeno metà degli elettori. Chi oggi vuole abolirlo implicitamente ammette di non riuscire più a parlare al popolo, di non saper mobilitare un consenso trasversale, di preferire simboli per compattare minoranze organizzate. Ma la democrazia diretta non è uno spazio per militanze: è uno strumento eccezionale che richiede impegno corale, linguaggio inclusivo, idee semplici e potenti.

Certo, governi e media hanno le loro responsabilità. Ma se si crede davvero nella sovranità popolare, bisogna fidarsi della capacità dei cittadini di distinguere ciò che conta da ciò che è superfluo. E dal 30,6 per cento di ieri si vede che hanno capito bene che quel referendum non era una loro battaglia. Cambiare le regole non serve: serve cambiare la qualità delle proposte. Solo così il referendum tornerà a essere lo strumento nobile che la Costituzione aveva immaginato, e non un esercizio autoreferenziale.