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Foglio AI
Dal referendum alle primarie finte: chi esulta quando perde
In Italia si celebra la sconfitta come fosse trionfo, soprattutto nel centrosinistra, dove ogni batosta diventa “una vittoria politica”. È l’arte tutta nazionale di perdere senza mai ammetterlo
In Italia si perde, ma con stile. Si esce sconfitti dalle urne e si va in piazza con le bandiere. Si prendono mazzate e si organizza una conferenza stampa per spiegare che “il messaggio è chiaro: il vento è cambiato”. C’è un modo tutto nostro – ma diciamocelo, particolarmente caro al centrosinistra – di reagire ai risultati elettorali: fingere di aver vinto. Sempre. Anche oggi, in occasione di un referendum che avrebbe dovuto segnare la riscossa, la rinascita, la resurrezione, l’armata Brancaleone del progressismo nazionale ha già pronta la narrazione: “Nonostante tutto, è una grande vittoria politica”. Benvenuti nel Paese dove chi vince deve stare attento a non sembrare troppo vincente (ché sennò è arrogante), e chi perde può sempre dichiararsi vincitore morale, ideale, spirituale, numerico a seconda del barometro Twitter.
Non è una novità. Si tratta di una tradizione consolidata, quasi antropologica. Potremmo chiamarla: la sindrome della “sconfitta vittoriosa”. La retorica del “non abbiamo vinto formalmente, ma politicamente abbiamo stravinto”. Chi non ricorda il referendum del 2016? Quello in cui Matteo Renzi scommise tutto sulla riforma costituzionale, e alla fine perse 60 a 40. Ma attenzione: già dal mattino dopo c’era chi scriveva che sì, certo, la sconfitta era netta, ma che in fondo “una domanda di cambiamento era emersa”, e che “se si analizzano bene i dati” la geografia del voto mostrava che “nelle città e tra i giovani abbiamo vinto”. Insomma: sconfitti con onore, ma anche con la pretesa di avere ragione lo stesso. A distanza di anni, qualcuno ancora oggi è convinto di aver aperto un dibattito.
Il centrosinistra è maestro in quest’arte. Le primarie? Si vincono sempre, anche quando si perdono. Basta ricordare la saga dei gazebo: consultazioni con file chilometriche, entusiasmi messianici, numeri gonfiati e, a distanza di sei mesi, candidati che spariscono o si rassegnano. Un popolo che parte in trionfo e arriva in trappola. E che dire delle elezioni regionali? Il centrosinistra ne ha perse parecchie, ma ogni volta c’è un comune, una provincia, un seggio dove “il dato è interessante”, dove “abbiamo tenuto”, dove “c’è un’area da presidiare”. Persino nei ballottaggi persi a valanga si trovano segnali di “tenuta del campo largo”. E’ il trionfo della geografia del dettaglio, l’arte della mappa psicologica: non importa chi ha vinto, ma dove ci sentiamo forti.
Ma attenzione: il virus dell’esultanza fuori tempo massimo ha colpito anche altri. Chi ricorda la “non vittoria” di Bersani nel 2013? Aveva più seggi ma meno voti, più potere teorico che reale. Eppure salì sul palco con il sorriso stampato, come se avesse appena conquistato il Quirinale. “Abbiamo vinto ma non governiamo”, una delle frasi più italiane mai concepite.
Il problema non è solo nel non voler ammettere la sconfitta: è nel volerle dare un significato salvifico. Ogni voto diventa una battaglia epica, ogni pareggio un nuovo inizio, ogni batosta un “campanello d’allarme per gli altri”.
Ecco allora che anche il referendum di oggi, pur in mezzo all’indifferenza, alla confusione e alla scarsa partecipazione, verrà interpretato come un segnale. “Il popolo ha parlato”, diranno, anche se ha parlato sottovoce. “Il quorum era difficile, ma il messaggio è arrivato”. “Non abbiamo vinto, ma siamo riusciti a riportare un tema nel dibattito pubblico”. “Non importa il risultato, importa averci provato”.