
Hollywood è diventata troppo woke? I dati di Stephen Follows, senza polemiche
Un’analisi su 22 mila film fotografa una realtà complicata
Se Hollywood fosse un campo di battaglia, la parola “woke” sarebbe l’arma preferita di chi pensa che il cinema non sia più intrattenimento ma propaganda. Si dice spesso che “i film non sono più quelli di una volta”, che ormai si fanno solo per “educare” il pubblico a pensare nel modo giusto. Stephen Follows, analista del settore cinematografico, ha deciso di verificare se questa accusa – diventata un riflesso automatico nei talk show e nelle timeline – abbia un fondamento oggettivo. Ha preso oltre 22.000 film, ha guardato cosa c’è davvero dentro e cosa si dice fuori, e ha provato a rispondere: Hollywood è diventata troppo woke?
La prima difficoltà è capire cosa voglia dire “woke”. Un tempo significava “essere svegli”, cioè consapevoli, specie riguardo a temi come razzismo, sessismo, disuguaglianze. Ma oggi il termine è diventato qualcosa di molto più sfuggente. Per alcuni è una bandiera di civiltà, per altri un insulto. Per i conservatori inglesi, secondo un sondaggio citato da Follows, è ormai una parolaccia: il 36 per cento lo considera un insulto (contro il 24 per cento nel 2020). Per gli elettori laburisti, invece, è ancora un segno di attenzione al progresso. E già qui si capisce che parlare di cinema “troppo woke” dipende molto da chi guarda – e da come lo guarda.
Ma Follows non si accontenta della sociologia. Analizza i numeri, i film, i dati. Parte da una constatazione: tra chi lavora nel cinema e chi lo guarda c’è una distanza enorme. I produttori, i dirigenti, i creativi – soprattutto nel mondo anglosassone – pensano che l’industria sia ancora in ritardo sui diritti civili e sulle rappresentazioni inclusive. Il pubblico, al contrario, ritiene che la correttezza politica abbia invaso lo schermo. Nel 2021, solo il 19 per cento dei dirigenti televisivi pensava che il politically correct fosse esagerato. Ma tra il pubblico, la percentuale saliva al 62 per cento. Due mondi che vivono lo stesso film con occhi completamente diversi.
Eppure, quando si va a vedere dove sono davvero le controversie, le sorprese non mancano. Analizzando le voci Wikipedia di oltre 22.000 film, Follows scopre che gli anni Settanta sono stati il decennio con il maggior numero di film considerati “controversi”. Non per motivi woke, ovviamente, ma per contenuti sessuali espliciti, violenza, censura o scandali legati ai registi. Negli ultimi anni, invece, le polemiche sono diventate più “culturali”: il colore della Sirenetta, il genere dei protagonisti, la razza degli attori. La quantità di polemiche non è aumentata – è cambiata la loro natura.
Per questo, Follows propone un metodo in due passaggi per affrontare la questione senza cedere al sensazionalismo: da un lato, osservare come i film vengono percepiti (“off-screen”), cioè come se ne parla, quanto spesso vengono accusati di essere “woke”; dall’altro, analizzare cosa davvero mostrano sullo schermo (“on-screen”). Quanti personaggi femminili? Quanti ruoli di minoranze etniche? Quanti riferimenti espliciti a temi Lgbt o a questioni razziali?
Ecco, è qui che arrivano i dati più interessanti. Quando si guarda cosa c’è davvero nei film, si scopre che – mediamente – i contenuti progressisti non sono aumentati in modo così travolgente come molti pensano. Certo, ci sono più protagoniste donne, ci sono più attori neri o asiatici, ci sono storie che affrontano questioni sociali. Ma si resta ancora ben lontani da una rappresentazione paritaria o uniforme. Anzi, molti dei film accusati di essere “woke” contengono in realtà percentuali ancora basse di diversità rispetto alla popolazione reale.
Il paradosso, quindi, è che la percezione di un eccesso “woke” nasce spesso più dal rumore che dai contenuti. Quando un film propone una protagonista donna o un supereroe nero, scatta subito la polemica, anche se nel resto della trama non c’è nulla di particolarmente militante. Come dire: basta un segnale per attivare un riflesso condizionato.
E allora, chi ha ragione? Chi dice che il cinema è diventato un campo di rieducazione progressista o chi difende ogni scelta come un atto di inclusione? Follows non dà una risposta netta, ma invita a guardare i dati, non le impressioni. Forse Hollywood sta cambiando – com’è giusto che sia, in un mondo che cambia. Ma no, non c’è stata una rivoluzione culturale pilotata. Non c’è una cabina di regia woke. C’è una sensibilità nuova, a volte goffa, a volte necessaria. E c’è soprattutto un pubblico che fatica a riconoscersi in un linguaggio che sente imposto.
Forse, il vero problema non è quanto siano “woke” i film, ma quanto siamo disposti ad accettare che il mondo – e lo schermo – non ruotino più solo attorno a noi.