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Il Foglio AI
Anche Jamie Dimon alza la voce
JP Morgan lancia l’allarme sul debito americano: non è catastrofismo, ma realismo
Non è un allarmista, Jamie Dimon. Non è nemmeno un gufo, per usare una vecchia espressione cara alla retorica politica. E’ il capo della banca più potente d’America, una delle figure più ascoltate e rispettate della finanza globale. Quando dice che “il mercato obbligazionario americano è destinato a incrinarsi” per via dell’aumento del debito pubblico, non sta facendo campagna elettorale. Sta facendo il suo mestiere: guardare avanti, mettere insieme numeri, intuizioni e cicli storici, e dire ad alta voce ciò che molti pensano ma pochi osano articolare. Per questo la sua diagnosi – resa pubblica dal palco del Reagan National Economic Forum – dovrebbe essere presa sul serio. Non solo da Wall Street, che già sussurra da mesi, ma soprattutto da chi oggi ha in mano la guida della politica economica americana. E dunque, dalla nuova Amministrazione Trump.
Il quadro è semplice, quasi brutale. Il debito federale degli Stati Uniti sta per superare, in rapporto al pil, i picchi della Seconda guerra mondiale. La proposta di bilancio di Trump, già approvata alla Camera, rischia di aggiungere almeno 3.300 miliardi di dollari al debito entro il 2034. Le agenzie di rating, come Moody’s, hanno già reagito abbassando la valutazione creditizia. I rendimenti dei titoli a trent’anni sono schizzati al 5 per cento. E intanto, il mondo continua a comprare meno Treasury: perché i tassi sono volatili, la politica è incerta, e la guerra commerciale in corso – anch’essa griffata Donald Trump – rende tutto più rischioso.
In questo contesto, l’intervento di Dimon è un segnale forte. Non è un invito a tagliare la spesa a prescindere, ma a “cambiare traiettoria”. A rendere il bilancio sostenibile. A fare finalmente i conti con la realtà: non si può abbassare le tasse, aumentare la spesa, fare dazi a pioggia e pretendere che i mercati continuino a sorridere.
Non è anti Trump, Jamie Dimon. Anzi: su alcuni punti, come la revisione della tassazione sui “carried interest” (i vantaggi fiscali per i manager dei fondi), è più trumpiano dei trumpiani. Ma ha il coraggio, raro oggi, di dire che così non si può andare avanti. Che l’America non è invincibile. Che la sua posizione di egemonia finanziaria – fatta di debito diffuso e di dollaro dominante – non è garantita per sempre. La politica dovrebbe essere grata a chi parla con franchezza. E dovrebbe usare queste parole come un’opportunità, non come una provocazione. Perché l’America può ancora invertire la rotta. Ma deve volerlo. E deve capire che, quando i banchieri cominciano a suonare l’allarme, non è mai per vendere panico. E’ per evitare la tempesta.