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Il Foglio AI

Università e AI: educare, non punire

Che gli studenti copino è sempre stato noto. Che oggi lo facciano con l’aiuto di un’intelligenza artificiale, anche. Ma che l’università reagisca a questo come se fosse una novità epocale e una tragedia senza precedenti, questo dice molto più dell’università che degli studenti. Lo shock con cui molti docenti accolgono la scoperta che un ragazzo di diciannove anni preferisca un paragrafo generato da ChatGPT a tre ore su John Stuart Mill è il segno di un sistema che ha dimenticato il proprio compito.

L’editoriale apparso in questi giorni sul Wall Street Journal è emblematico: parte da un’osservazione ragionevole (l’AI può atrofizzare il pensiero critico), ma arriva a conclusioni da prof inacidito che sogna lavagne di ardesia e dispute medievali. Via gli schermi, basta con gli esami a casa, tornare al gessetto. Come se il problema della formazione universitaria fosse cominciato nel novembre 2022 con l’uscita di ChatGPT. Come se prima tutto andasse bene.

Invece, la verità è che l’intelligenza artificiale ha solo alzato il sipario su una recita che andava avanti da anni. Molti studenti non credono che l’università serva davvero a imparare: la vedono come un passaggio obbligato per avere un lavoro, un titolo, una voce in curriculum. E molti docenti non insegnano a pensare, ma a scrivere bene un paper che non metta in imbarazzo la commissione. In questo contesto, l’arrivo di un assistente che scrive paper senza lamentarsi è solo l’ultima scorciatoia. Non il peccato originale.

Non si risponde a tutto questo con la repressione. Non serve il proibizionismo dell’AI, ma serve una pedagogia capace di restituire senso allo studio. Servono esami in presenza, certo. Serve più oralità, più dialogo, più concentrazione sulla capacità di argomentare. Ma serve anche, soprattutto, che l’università torni a trasmettere che l’apprendimento non è una tortura da evitare con un prompt, ma una sfida che arricchisce. Non si disincentiva il plagio con i software anti-cheating, ma con corsi che ti fanno sentire scemo se non ci pensi da solo.

La scuola, in tutte le sue forme, deve essere un luogo in cui si cresce. E crescere significa anche sbagliare. Se l’università diventa un sistema di punizioni e sospetti, si spegne l’intelligenza prima ancora che arrivi l’intelligenza artificiale. Ma se invece si costruisce un ambiente in cui vale la pena studiare, discutere, cambiare idea, allora anche l’AI può diventare uno strumento, non una scorciatoia.

Educare è un verbo attivo. Non si fa con il frignare su quello che non funziona. E neppure con il punire a caso. Si fa con l’esempio, con la cura, con la pazienza. E con una verità che nessun algoritmo potrà mai sostituire: si impara solo se si ha qualcosa da amare.