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Il ritorno di Deborah Levy: lasciala stare, lascia che trovi la luna. Vita di Elsa

Michele Neri

La scrittrice riesce a dare forma e gravità al vuoto creato da un abbandono per il quale non c’è soluzione nota. E a mostrare l’inevitabile procedere senza appigli di chi è senza radici

Trentaquattro anni e “Nessun amore. Niente figli. Non c’era una tazza fumante sul mio pianoforte, il cucchiaio sul piattino, un cane sullo sfondo, il fiume che si intravedeva dalla finestra o un compagno che preparava la colazione dietro le quinte...”. È la vita di Elsa M. Anderson, eccelsa pianista reduce da una disastrosa débâcle mentre suonava il secondo concerto di Rachmaninov a Vienna e protagonista del ritorno al romanzo di Deborah Levy dopo la trilogia dell’Autobiografia in movimento e che di questo amato terzetto mantiene l’ingranaggio sussultorio che fa sì che il racconto diventi un’esperienza che stia capitando anche a noi. 

 

"Agosto blu" (traduzione di Gioia Guerzoni, NNE) mostra Elsa attraverso i suoi repentini spostamenti tra Atene, Parigi, Londra e Sardegna: incapace di tornare davanti al pubblico, dà lezioni di piano a bambini di talento e si accorge di essere pedinata nei suoi spostamenti da una donna che le somiglia, o meglio riveste la parte di sé volutamente censurata, una gemella perduta nel tempo e che costringe la protagonista ad affacciarsi su questioni mai affrontate. 

 

Elsa è stata abbandonata alla nascita dalla madre – il padre è fuggito: non le hanno dato nemmeno un nome. 

 

“Bambina” è accolta dai vicini di casa, dove scopre un pianoforte Wurlitzer verticale su cui si esercita, rivelandosi un prodigio; se ne accorge un grande maestro che l’adotta, promettendole di portarla in una casa molto più grande, quella dell’arte. Da quel giorno Elsa rinuncia a ogni legame con le origini; né cercherà di ritrovare le due madri, quella da cui era stata abbandonata e quella che fu lei a lasciare. Finché non vede una donna che le somiglia acquistare, un attimo prima che possa farlo lei, due cavallini meccanici in un mercatino di Atene. Attraverso l’intersecarsi agile di case, amici e rivelazioni, saltando dall’isola di Poros nel cui mare s’immerge per staccare i ricci dalla roccia con una forchetta, alla casa sarda e assalita dalle zanzare, in cui sta morendo il suo vecchio pigmalione in compagnia del più giovane amante, i due cavallini e il cappello floscio di feltro nero che la donna misteriosa abbandona dietro di sé ad Atene ed Elsa non smetterà più d’indossare, insisteranno a offrire un portale per quel passato che Elsa ha rimosso. “I cavalli mi avevano avvicinato al corpo di mia madre”.

 

Deborah Levy riesce a dare forma e gravità al vuoto creato da un abbandono per il quale non c’è soluzione nota. E a mostrare l’inevitabile procedere senza appigli di chi è senza radici; per cui se nulla è temuto più, alla volontà difetta qualcosa per non avvertire in ogni incontro o perdita un richiamo nascosto, per non trovare nelle coincidenze una legge cui riferirsi. Qual è il messaggio che la donna, sempre più identica a lei, vuole che legga? Individuare una strada interiore, in modo empirico, quasi sensitivo, e sopportare l’effetto di quegli eventi rimossi che rinascono come piccole onde al contrario, talvolta così grandi da modificare l’orizzonte. “Bambina”: questo anonimato assoluto, in misura diversa è presente in ognuno. 

 

Agosto blu insegna a trovargli un nome e una soluzione originale. Per fare poi pace con la madre: “Lasciala alla solitudine. Lasciala stare. Lascia che trovi la luna”.

 

Agosto blu parla anche del rapporto di Deborah Levy con la scrittura. Sceglie per questo una frase di Isadora Duncan, angelo custode di Elsa: “Ripeteva che «Se avesse potuto descrivere tutto ciò che significava, non avrebbe avuto senso ballarlo»”. Perché questo titolo? Non è il mare greco e forse nemmeno la malinconia. Forse c’entra Yves Klein: “Che cos’è il blu? È l’invisibile diventato visibile”.

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