Il figlio
Nove persone venute qui dal Ruanda. Aiutarsi e consolarsi, ecco come si fa
Pietro Veronese racconta gli Igihozo, unica famiglia d'elezione ruandese presente in Italia, scampata al genocidio del secolo scorso. A volte, per creare un nuovo nucleo, si possono anche sovvertire i ruoli
"La nostra mamma – dice Grace - si chiamava Cécile, ci coccolava come fossimo figli suoi. Quando eravamo fuori e veniva a piovere, ci raggiungeva per portarci l’ombrello”.
Ecco cos’è una famiglia, ho pensato, qualcuno che quando piove esce di casa per portarti un ombrello. Anche se io lo faccio borbottando contro i miei figli che si scordano sempre tutto o contro il meteo o contro l’ombrello stesso, che, certamente per farmi un dispetto, è sempre rotto.
La Famiglia, una storia ruandese è un bel racconto raccolto da Pietro Veronese per e/o sulla famiglia Igihozo, un gruppo di nove persone rimaste sole in Ruanda dopo il genocidio di trent’anni fa, venute in Italia dove hanno creato, senza vera parentela, una “famiglia d’elezione”.
Ne è venuto fuori un racconto corale di dolore, tragedia, ritorno alla vita e speranza che ci aiuta a conoscere quei cento infami giorni, tra l’aprile e il luglio 1994, quando in quel piccolo paese al centro del continente africano furono uccisi donne, uomini e bambini, colpevoli soltanto di avere scritto Tutsi nella carta di identità. Fu un massacro: persone comuni alzavano il machete contro quelli con cui fino a un minuto prima avevano condiviso la mensa in fabbrica, i banchi di scuola, una festa di paese.
Honorine, una delle protagoniste del libro, ricorda che quando l’odio ha cominciato a diffondersi la sua compagna di banco a scuola, Claire, iniziò a indicare il suo naso e a chiamarla scarafaggio. Esistevano anche alcune famiglie miste: il vicepresidente del partito socialdemocratico, Felicien Ngango, avvocato hutu, era sposato con una donna tutsi. Vennero uccisi coi loro tre figli.
Quello che Veronese racconta è che, dopo il genocidio, i giovani scampati alla carneficina, rimasti senza nessuno, profondamente feriti nell’anima, inventarono una forma di sopravvivenza unica al mondo: formarono delle “famiglie d’elezione”, unendosi e nominando tra di loro un padre e una madre che assumessero nella loro vita quei ruoli.
Gli Igihozo, l’unica di queste famiglie presente in Italia, è formata da persone che nel 1994 non si conoscevano neppure.
“Ogni famiglia d’elezione – spiega Luc, il padre - si comporta come una famiglia vera, nella quale si condividono le cose belle e anche quelle brutte”. Luc dice che a Roma ha cercato di ricostruire quello che aveva visto fare nel suo paese d’origine perché, sottolinea, “è importante avere qualcuno che ti chiede come stai”. “Di famiglie come la nostra fuori dal Ruanda ce ne sono poche – racconta Leonie – in Ruanda invece sono tante”.
Oggi gli Igihozo non vivono più assieme, la vita li ha portati in città diverse, i figli hanno avuto a loro volta dei figli, ma anche se non si vedono spesso si telefonano e passano le vacanze assieme. “Chiamarla famiglia mi pareva un’esagerazione – spiega Mimi – ma poi mi trovai in difficoltà. Quel giorno mi chiamò Leonie, mi confidai, mi aiutò a risolvere i problemi. La famiglia c’è, pensai. Ora se Leonie mi chiede di andare in cima alla montagna a spostare pietre io ci vado”.
Beata racconta che il primo passo è stato scegliere il nome del nucleo che, per tradizione, deve essere un motto o una parola di incoraggiamento: “Igihozo vuol dire consolazione”. Beata ha fatto la madre per tre anni, poi è toccato a Leonie, che era una figlia. La famiglia d’elezione ha anche questa caratteristica: i ruoli possono essere a tempo, quando non se ne può più da madre si può diventare figlia o zia o nonna. Perché la responsabilità quando è pesante può schiacciare, allora meglio cambiare ruolo.
A volte è bello portare un ombrello, a volte è bello che qualcuno lo porti a te.