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Il figlio

Giù nel cieco mondo di Jesmyn Ward, che mostra la forza dell'essere 

Lisa Ginzburg

Il racconto di una vicenda impietosa dove è il femminile, il vigora materno, nella sua essenza più nitida e infallibile a fare da guida 

Un paesaggio essenziale, scabro e insieme emozionante, nella sua aspra bellezza. Una piantagione in Carolina, non lontano da New Orleans. Lo sguardo di una figlia che tormentato e fisso segue la madre, una donna schiava, assoggettata e sottomessa all’uomo che l’ha stuprata. Lei, la figlia (Annis / Arese il suo nome), di quello stupro è il frutto, la sua pelle meticcia è indelebile impronta, quotidiano dolorosissimo memento. Lei cerca ristoro, sollievo; ma tutt’intorno, ogni cosa del mondo rimane ai suoi occhi, nel ripetersi uguale, giorno dopo giorno, inscalfibile e durissima. Il padre, l’uomo bianco e schiavista, ha due figlie da un’altra donna, due ragazzine bianche come lui, gemelle.

 

Quando la madre di Annis viene venduta, a New Orleans, da quel momento alla giovane figlia, piegata da dolore e pena, sembra sia venuta a mancare ogni  radice, ogni base di sostegno femminile. Perché è una linea femminile arcaica e guerriera quella che Jesmyn Ward racconta nel suo nuovo libro (Giù nel cieco mondo, traduzione di Valentina Daniele, NN editore, pp. 270, euro 19). Un sapere antico, fatto di resilienza e combattività: è quello che la madre ha fatto in tempo a trasmettere alla figlia. Portandola lontano dalla piantagione, in una foresta dove le ha insegnato “astuzia e intelligenza, altrimenti non ne esci viva”. “In questo mondo, la sua arma sei tu” anche le ha ripetuto sino allo sfinimento; ma la figlia dentro di sé sa bene che la vera arma, la prima, è stata invece proprio lei, sua madre. La forza della sua materna presenza (anche dopo, nell’assenza).

  
Lo stesso lignaggio femminile arcaico, di incrollabile saggezza in ogni sorta di frangente (che sia peripezia o sventura) sostiene Annis / Arese anche più tardi, quando nell’esodo che vedrà lei pure assoggettata come schiava, incontrerà in forma invisibile e sottile un’antenata, Aza. La sapienza di quell’ava è più ampia ancora di quella che le è stata trasmessa attraverso la madre. Stessa forza tacita, qui amplificata; stessa eredità immateriale di esperienza maturata nel dolore.Come già nel sensazionale romanzo d’esordio Salvare le ossa (NN 2018), qui di nuovo Jesmyn Ward (due volte insignita del National Book Award) riesce a restituire in modo struggente e perfetto la realtà e le tracce del dolore che la frastagliano, scontornando entrambi su uno sfondo che è paesaggio essenziale, disossato, senza orpelli. La foresta di “alberi che mormorano, neri per il congedo del sole”. E sul limitare, giù giù, al fondo del mondo, ecco la città di New Orleans, con la sua atmosfera densa e divoratrice di vite schiavizzate (“New Orleans è un alveare, e noi il miele”).

  
Senza scivolare nell’enfasi, ma tenendo alta la qualità lirica, la scrittura di Jesmyne Ward riesce qui a raggiungere il  culmine della scrittura epica. Raccontando una vicenda impietosa dove è il femminile nella sua essenza più nitida e infallibile a fare da guida.Una serietà assoluta nel saper contemplare e considerare, proteggersi per quanto si può, “occuparsi di sé ma anche delle proprie tempeste”. Se Margaret Atwood ha definito “imprescindibile” questo romanzo di Jesmyne Ward, è perché la misura epica più che mai riesce a riflettersi sul presente. Una perplessità intessuta di maturità e profondo ascolto. Come quella che si percepisce nell’efficacissima copertina, l’immagine di una ragazza con lo sguardo fisso su un invisibile spaventoso vuoto, e cui l’artista (Marinka Massèus) assegna il titolo “I am [not] me”. Ovvero, sono quello che sono, ma anche sono tutt’altro da quel che la vita vuole io sia. Questo anche accade nelle vite resilienti di Jesmyne Ward. Questo anche, impariamo. Cosa sia la forza dell’essere, e cosa il più viscerale, fisico, psichico opporsi a quanto in nessun modo sentiamo di essere.

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