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Il destino le separa ma loro, madri della stessa figlia, saranno legate per sempre

Fuani Marino

In tempi in cui si dibattite su cosa renda davvero madre e genitore, se la genetica o la cura, con "Il giglio d'acqua", il libro di Ivana Librici, ci troviamo a inseguire una donna che non potendo avere figli suoi decide di crescere quella di un'amica scomparsa

Ci sono fiori che sbocciano sulla superficie dell’acqua, come il giglio, una pianta acquatica con “le foglie ovali, vellutate. Sembra una zattera alla deriva che, dopo un lungo viaggio, si è spiaggiata”. Si intitola appunto “Il giglio d’acqua”, come la pianta diffusa nell’area subtropicale, il libro di Ivana Librici edito da Solferino e ambientato fra l’Italia e la Bolivia. E’ la storia di alcuni legami, di sangue e non solo, e di come evolvono nel corso del tempo. Perché come la represa di San Ignacio de Velasco, ovvero il bacino d’acqua che serve il capoluogo di Santa Cruz de la Sierra, dove è ambientata la storia, può essere necessario alla vita del villaggio e diventare al tempo stesso anche un lago che inghiotte, nel buio della notte, senza più restituire.

 

Due bambine crescono insieme, come sorelle nonostante non lo siano, perché una delle due è una semplice alzadora, una empleada nella famiglia dell’altra. Nancy, infatti, è una criada, ovvero una bambina cresciuta in casa altrui per servire. Un costume tipico delle comunità di campesinos dove le famiglie campestri sono numerose e affidano spesso uno o più figli a case benestanti. Malgrado questa sostanziale differenza di status, Ada e Nancy crescono insieme giocando, condividendo una quotidianità fatta di piccole cose, come la telenovela che guardano sempre sul divano, “la sera, le nostre cosce e braccia unite a formare un unico corpo”.

 

Essere nella stessa barca – Estamos en el mismo barco, ripete spesso Nancy a Ada – vuol dire condividere. Non per forza lo stesso destino, però. Attraverso continui salti temporali, frammenti onirici e continue parole spagnole in corsivo, Ivana Librici ci porta a scoprire cosa ne è delle due protagoniste. Imbarcandosi in quelle che lei stessa definisce delle pseudo-indagini, Ada parte alla ricerca di Nancy, questa sorella acquisita e poi perduta. Si muove sulle sue tracce “per decifrarne la fine”, e perché non è solo l’amica con cui è cresciuta ma anche la madre naturale di quella che oggi è sua figlia: Paula. Paula è la figlia di entrambe: di Nancy che l’ha messa al mondo e di Ada che le ha permesso una vita migliore in Italia. Paula, appena liceale, scopre di essere incinta e avrà una figlia a sua volta.

 

In tempi in cui il dibattito su cosa renda davvero madre e genitore, se la genetica o la cura, è particolarmente acceso, ci troviamo a inseguire una donna che non potendo avere figli suoi – Ada no puede tener familia, sospira la madre sconsolata a chi le chiede notizie – decide di crescere quella dell’amica scomparsa.

 

Nelle oltre duecento pagine sfilano il ricordo delle promesse infrante, di un pacto de sangre fra due bambine e il desiderio di non lasciarsi mai, ma anche un farneticante programma di unioni fra uomini tedeschi e donne indigene per ottenere la razza pura. Gli sposi della morte – los novios de la muerte – erano infatti ex soldati e ufficiali fedeli alla causa nazista, sempre pronti a sposare nuove battaglie violente.

 

“Il giglio d’acqua” è un testo che ricorda per temi e ambientazioni esotiche “La figlia unica” (La Nuova Frontiera) di Guadalupe Nettel, scrittrice messicana che scandaglia gli abissi dell’amicizia e della maternità. Perché “c’è qualcosa nella nascita che ha a che fare con la morte. Non so definire cosa sia. Né è solo il pericolo residuo che la madre o il figlio, o entrambi, muoiano. E’ qualcos’altro. Nel parto l’esistenza sfiora la morte, la tocca con mano, la accarezza. La vita corre sul crinale della non-esistenza e poi strabocca, esce fuori. (…) Credo che il parto sia l’unica esperienza di vita in cui si lotta corpo a corpo con la morte e si vince”, scrive l’autrice che ci porta a riflettere e a scalfire certezze granitiche. E c’insegna che “è una lingua sconosciuta, quella che parla il corpo”, e che la scelta se avere un figlio oppure no, se tenerlo oppure no “deve basarsi interamente su una questione di sentire. Una voce da dentro che ti suggerisce il da farsi”.

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