Il figlio

In memoria di Pucci e degli anni in cui si impara a vivere. Ragazzo in fiamme

Giacomo Giossi

Comprava greci e latini e poi molti altri libri, alcuni per una forma erotica di piacere per lui incontenibile che passava dalla cucina alla letteratura antica fino ai saggi storici: da Auster a Pavese, da Proust a Ginzbrug

La prima volta che ci siamo conosciuti mi ha detto: “Mi pare di conoscerti” e invece no, non ci eravamo mai incontrati. Lui era il cliente e io il libraio, ci abbiamo messo nulla a diventare amici. Sodali, come amava dire lui. Comprava greci e latini e poi molti altri libri, alcuni per una forma erotica di piacere per lui incontenibile che passava dalla cucina alla letteratura antica fino ai saggi storici. Si sarebbe detto un tempo che lui fosse il prototipo del lettore Einaudi, quella categoria teorizzata e praticata con successo da Roberto Cerati che il libro Einaudi l’aveva saputo vendere (valorizzandolo) come nessuno mai. E così fu facile passare dai libri nuovi che comprava da me ai libri usati, di quel secondo Novecento einaudiano che noi amavamo tantissimo. I Coralli, i corallini come li chiamavamo, con la copertina rigida e la sopraccoperta, poi certo i Millenni, i Gettoni e la magnifica Einaudi Letteratura. Gli autori: Pavese, Pavese sempre, Pavese tutto, poi Natalia Ginzburg, Proust. Proust in tutte le edizioni possibili (Einaudi) era un’ossessione, è un’ossessione.

 

Alle volte acquistava libri che poco dopo mi avrebbe regalato con un gusto per la sorpresa che mi emozionava ogni volta. Ma rimaneva in lui il dubbio assurdo di avermi conosciuto tempo addietro.
Impossibile per la differenza di età, impossibile perché ce lo saremmo ricordato entrambi. Poi un giorno lo incrociai mentre ero con mio padre e tutto fu chiaro al volo, come un guizzo: Merano 1972, alpini entrambi. Il militare, pratica dolorosa quanto stupida che pure ha segnato i ricordi di generazioni di maschi (seppure pacifici). Si abbracciarono comicamente, come fa chi non è abituato ai gesti espansivi. Vidi questa coppia, uno alto e uno basso, diversi, eppure armonici negli occhi e nei ricordi, legati da curiosità reciproca. Due padri? Forse, ma con ruoli distinti e chiaramente assegnati. Proprio come al militare, ma con un senso per la vita che mi ritrovo addosso tutto. Tanto più adesso in queste ore in cui la paura si confonde con il dolore. 

 

Queste ore in cui lui, che tutti chiamavano Pucci, non c’è più. Ora che entrambi non ci sono più restano i libri e certi vezzi che loro due mi hanno lasciato tra le mani, nella postura e pure nel linguaggio. 
Ci sono modi diversi per essere o meglio per sentirsi “una forza del passato” e uno di questi è quella condizione che ci lascia figli e poi nulla più, esattamente come libri sparsi su un pavimento dopo un terremoto. La libreria resta vuota come un oggetto totalmente inutile mentre provo a districarmi tra le pagine di libri ammassati a caso attorno ai miei piedi.

 

L’ultima volta Pucci e io abbiamo parlato del Ragazzo in fiamme, l’ultimo mastodontico libro di Paul Auster, l’apice  di uno sguardo che vede nel caso il senso di ogni storia. Il racconto di un giovane uomo - Stephen Cane - che rappresenta icasticamente gli anni dell’apprendistato al centro della poetica di Auster, gli anni che determinano un’esistenza al di là della della sua stessa durata. Il valore dunque della distanza per mettere a fuoco e scoprire nell’altro se stessi. 

 

Ora non saprei dire se ho conosciuto davvero Pucci: ho saputo molto di lui e ho capito che di molte altre cose non sapevo nulla, e anche che era giusto così. La distanza è una misura, trovata quella giusta bisogna averne cura. Ogni volta che doveva dirmi qualcosa d’importante lo faceva camminando, fermandosi ogni tre passi, come una sottolineatura della frase. Ora capita anche a me di farlo. Non mi serve, ma mi piace. Aiuta a riposare la mente, a prendere il tempo giusto. Mentre fuori picchia il freddo, Pucci si accende l’ultimo toscano, quello con cui mi saluta, quello prima di tornare a casa.

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