Srebenica, 2015 (Lapresse)

IL FIGLIO

Niente è bastato

Simonetta Sciandivasci

I figli di Sarajevo e la ferita immensa di chi è fuggito. Una causa di morte tutta per sé

In un articolo del 7 maggio del 1994 per Cuore, Adriano Sofri scriveva che una sua amica sarajevese gli aveva spiegato che i bosniaci miravano a sopravvivere per poter avere una morte personale. “Vogliamo tirare avanti fino a tornare a una normalità, a un’esistenza in cui ciascuno possa andare incontro alla propria morte, e sfuggire al destino anonimo e di massa di un intero popolo. Miriamo, noi adulti, a guadagnarci una data e una causa di morte tutta per noi. Voi non potete capirlo”. La prima volta che sono stata a Sarajevo, molti anni fa, e ho visto che le lapidi dei cimiteri sulle colline del centro avevano tutte le stesse date, ’95, ’96, ’97, forse, ho capito.

 

 

Quando, da Sarajevo, sono andata a Belgrado in macchina, e guidava un serbo che mi ha detto “i bosniaci sono pochi, maiali e musulmani”, forse, ho capito. E mi sono vergognata moltissimo. E mi vergogno anche a dire d’essermi vergognata, perché la vergogna è ancora più semplice e bigotta dell’indignazione. I massacri in Bosnia succedevano mentre crescevo, a due passi da me, da noi, che poi siamo diventati ragazzi dell’Europa, abbiamo cercato una radice comune per dirci fratelli, se l’abbiamo trovata o meno non lo so, ma so che non è una radice comune a fare i popoli fratelli. Non so nemmeno cosa faccia fratelli i fratelli: non ne ho.

 

Mi dicono esista una forza, tra loro, un’interdipendenza e una voce che diventa un tormento se mai uno abbandona l’altro, o lo perde. Non so dire se assomigli alla voce che ho sentito in Bosnia e che forse era solo cattiva coscienza e vergogna, appunto. Però so che quella vergogna è un vuoto ed è importante riempirlo. Mi piacerebbe che l’assedio di Sarajevo ci ferisse, che lo ricordassimo come ricordiamo le stragi naziste, le ferite che rievochiamo per dirci qualcosa sulla natura dell’uomo, perché tutte le guerre dell’ex Yugoslavia sono state la storia di Caino e Abele, perché dentro ciascuno di noi c’è Caino, non Hitler. Non m’importa che questo ricordo diventi una giornata particolare ma m’importa che cominciamo a raccontare che paese siamo stati quando quella guerra avveniva e noi ascoltavamo i Take That, a scuola parlavamo del Golfo e dell’invasione degli albanesi, ma nessuno si prendeva cura di dirci che a Sarajevo i bambini venivano ammazzati dai cecchini mentre giocavano in casa.

 

 

E poi saremo salvi? Si chiama così, senza punto interrogativo, il romanzo che Alessandra Carati ha appena pubblicato per Mondadori, e racconta che cos’è successo a una famiglia bosniaca fuggita dalla guerra e trasferita in Italia, sapendo che se mai fosse tornata a casa, non avrebbe trovato niente. In questa famiglia ci sono due genitori, una sorella e un fratello che nasce a Milano eppure è quello che, più di tutti, subisce il trauma, non trova un centro, un punto da cui partire e un altro cui arrivare: tutto, in lui, è destinato a frantumarsi. Sua sorella, che è salda, e non è soltanto una sopravvissuta come i suoi genitori, in Italia si integra, diventa medico, si sposa, costruisce un futuro, eppure non riesce a salvarlo. Non può salvarlo perché i fratelli non possono tutto, anche se sembra il contrario. Non può salvarlo perché in Bosnia l’indivisibile è stato diviso, i fratelli si sono disconosciuti, le persone sono state seppellite con le dita tagliate di modo che avessero il saluto serbo.

 

E’ successo cioè che il vincolo di sangue è stato delegittimato e tutti sono rimasti soli, familiari senza famiglia. E’ questo il fatto che condiziona tutta la storia di questo romanzo, dimostra in che modo quella guerra s’è portata nel futuro e perché l’amica di Sofri sperava di sopravvivere per morire da persona e non da popolo. “A Sarajevo su dieci famiglie nove sono miste. Come si fa a separarle?”, dice il padre di Aida, la protagonista, a un italiano, Franco, comunista, che gli dice a un certo punto: “Voi bosniaci non volete la pace e non riuscite ad accettare che la divisione della Bosnia è la sola strada per la pace”. In Bosnia non è bastato niente, né essere fratelli, né essere bambini. S’è salvato solo chi è morto. A casa sua, non in guerra.

 

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  • Simonetta Sciandivasci
  • Simonetta Sciandivasci è nata a Tricarico nel 1985. Cresciuta tra Ferrandina e Matera, ora vive a Roma. Scrive sul Foglio e per la tivù. È redattrice di Nuovi Argomenti. Libri, due. Dopodomani, tre.