Quattro matrimoni e un funerale (1994)

IL FIGLIO

Trenta matrimoni

Luciana Grosso

Due volte l’anno, come nel film, la vita chiama e chiede il riso da lanciare a chi ci crede ancora

Quante volte avete visto “Quattro matrimoni e un Funerale”? Spero abbastanza, perché è un film imprescindibile, che racconta due storie: la prima è quella dell’amore casuale e romantico tra Hugh Grant e Andie MacDowell; l’altra, assai più importante, vera e forte, è quella di un gruppo di amici (la famiglia vera che ognuno di noi si sceglie e tiene stretta, e per cui anche si soffre) che sta attraversando quella particolare fase della vita (diciamo dai 25 ai 40, con le variazioni del caso) in cui ci si sposa e, soprattutto, si viene invitati ai matrimoni. Per una quindicina d’anni si sposano tutti. Si sposa tizo, si sposa Caio, si sposa Sempronia, si sposa Calpurnia. Di media un paio di volte all’anno, in primavera e in autunno, arriva una partecipazione e occorre trovare un vestito elegante (gli uomini, fortunati, possono usare sempre lo stesso completo blu, a noi donne, invece, tocca comprarne ogni volta uno diverso, perché Facebook ha reso impossibile riciclare gli abiti), occorre mettere un paio di scarpe scomode e costose e andare lì: il riso, il regalo, i brindisi, “Dove andate in viaggio di nozze?”, “Sei bellissima” e “Tanta tanta felicità”. E pazienza se già tra i tavoli del pranzo gira il foglio con le scommesse su quanto durerà. Così, la settimana scorsa, mentre evitavo per paura del Covid un trenino al seguito di un’amica di vestita di bianco, mi sono ritrovata a fare i conti di quanti matrimoni mi hanno visto tra le invitate.

 

Su per giù, una trentina: il primo, lo ricordo benissimo, era quello di mio padre, ma non con mia madre: avevo 12 anni e i miei insieme nella stessa stanza non li avevo mai visti per più di mezz’ora. Mi sembrava normale. O meglio, lo era. Solo che agli altri non capitava. Anni dopo, più o meno all'università, ho fatto da testimone a un altro matrimonio, quello di mia madre, che sposava un altro divorziato come lei, e la cui figlia, mia coetanea, faceva come me da testimone e da complice a quella nuova strana normalità fragile che due ultracinquantenni stavano provando a mettere insieme, ancora e comunque, contro le statistiche e l’esperienza. E ancora e comunque, contro le statistiche e l’esperienza, ci provano e ci hanno provato, con alterne fortune, quelli che dicono sì. Quelli che oggi hanno poco più di trent’anni e che ormai lo sanno che il mondo e la vita sono un casino, ma che ci provano lo stesso, hai visto mai che a loro vada bene. Così, al di fuori della mia cerchia parentale, nella grande famiglia di elezione degli amici, ho assistito a matrimoni riparatori (uno, durato il tempo di un amen e il cui bambino, motore immobile di quella cerimonia, oggi mi scrive orgoglioso dal ginnasio messaggi in cui mi dice di avere il mio stesso professore di allora), ad altri da favola (la cui durata è stata inversamente proporzionale al costo del ricevimento), a matrimoni che chi mai l’avrebbe detto sarebbero avvenuti, ad altri che chi mai l’avrebbe detto sarebbero durati, ad altri che chi mai l’avrebbe detto sarebbero finiti, a civilissime unioni civili tra divorziate che non avevano messo in conto che, nella vita, tutto cambia.

 

 E mentre continua incessante il via vai per le navate delle chiese o gli scaloni dei municipi, noi altri, vecchi amici dignitosi e rassettati per gli sposi, restiamo qui. Nubili e randagi. Vestali di una giovinezza che non ci siamo rassegnati a lasciar andare. I nostri amici si sposano, noi restiamo, come si dice, liberi. E un po’ auguriamo ai nubendi tanta felicità, un po’ li odiamo perché ci hanno lasciati soli, sempre meno amici al bar, e non vengono più con noi a fare guasconerie da adolescenti fuori tempo massimo. Ma alla fine non importa che il matrimonio sia il tuo o quello di un’altro. La vita fa quello che le pare e, all’incirca due volte l’anno, ti chiama, ti fa mettere un paio di scarpe costose e scomode e ti chiede di guardarla mentre va avanti, tra marosi e rate del mutuo, aggrappandosi al salvagente della fiducia. Perché il punto non è quanto il matrimonio durerà, o quanto siano azzeccati sposo e sposa. Il punto è che hanno scelto di crederci. E la gente che crede nelle cose, in tutte le cose, si tratti della rimonta dell’Inter, dei regali di Santa Lucia, o di una cosa fragile come l’amore, vale sempre la pena. Se lo merita, il nostro vestito migliore. Se li merita i nostri auguri, anche se lo sposo proprio non riusciamo a sopportarlo. E se e quando gli sposi di oggi dovessero diventare gli inquilini esasperati e confusi del nostro divano, meriteranno anche il nostro vino rosso e il nostro impegno nella consolazione. Perché anche per smettere di credere in qualcosa, ci vuole coraggio.

 

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