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La stria mia

Ilaria Macchia

Da quel giorno la bambina non sono più io. La figlia non sarò mai più io, perché adesso c’è lei

"Voglio le patate zuccherine fritte con lo zucchero sopra”.

 

Le ho chieste a mia madre un giorno che mancava poco al parto. Non erano voglie, secondo la mia esperienza non esistono le voglie in gravidanza, a meno che non ce le hai sempre avute durante la tua vita non gravida, come succede a me.

 

Mia madre mi ha guardata, distratta. Di quello che volevo io le importava poco. La questione a cui voleva far fronte era un’altra. E riguardava una domanda che mio padre le aveva rivolto poco prima: stanotte la stria ha durmutu?

 

La mia mancanza di sonno è sempre stata argomento di discussione in famiglia. Soprattutto tra i miei genitori, perché io invece ho sempre ritenuto il fatto di dormire poco come una mia caratteristica, una di quelle cose che ti fanno sentire fica quando sei adolescente, e poi invece sfigata quando sei adulta e hai le occhiaie viola.

 

Quindi, quando la mattina la mia richiesta di patate zuccherine è caduta nel vuoto, e ho osservato i miei genitori parlare tra loro come se stessero aggiustando un fattaccio – chiedendosi appunto se avevo dormito – mi sono sentita in dovere di rispondere.

 

“Insomma, sono andata in bagno quattro volte.”

 

I miei mi hanno guardata interdetti, come si guarda una pazza che ha risposto a una domanda non posta.

 

“Sì, è normale, sei incinta – mi ha spiegato subito mia madre, e poi ha aggiunto – ma la stria ha durmutu?”.

Stria è una parola del dialetto salentino. Significa bambina. In realtà però, gli adulti la usano per significare figlia più che bambina. Ha una nota romantica: la mia bambina. Mia figlia. La stria.

 

In alcuni casi poi, stria è usato come una specie di vezzeggiativo: quiddha è la stria mia. La traduzione è sempre la stessa, quella di bambina, ma la mia bambina in questo caso significa la mia fidanzata.

 

In questo modo la usano i ragazzi: quando avevo diciotto anni mi faceva venire un brivido sentirmelo dire da uno che sognava di diventare un calciatore. Tu si la stria mia… nella fase in cui volevo essere considerata grande e bona, sentirmi chiamare stria mi dava l’impressione di contravvenire alle mie stesse regole. Volevo fare sesso, ma ero una stria.

Lo ero e lo sono. Sono io figlia. Sono sempre stata io. Io, figlia. Unica e sola.

 

I miei genitori, per riferirsi a me tra di loro, mi hanno sempre chiamato così. Non è il termine con il quale mi si rivolgono, ma è il modo in cui mi chiamano. Viene fuori, tra di loro, sempre come un sussurro.

 

Diciamolo piano: la stria s’ha ’zzata? La stria ha mangiato? Addu stae la stria? Cu ci stae la stria?

 

Nonostante stria significhi bambina, la confusione con il termine figlia ha fatto sì che continuassero a chiamarmi in questo modo anche da adulta. Cambiavano le mie attività – la stria ha fatto l’esame? La stria s’ha ’ccattata la macchina? – a seconda delle età. Ma sono sempre stata stria. Bambina e figlia, quindi. Unica e sola, di nuovo.

 

Almeno sino a quando non sono rimasta incinta. Nell’ultimo periodo di gravidanza infatti, i miei genitori si sono trasferiti da me.

 

Dopo una resistenza iniziale ho accettato di non fare veramente niente, se non il mio lavoro e mangiare quando in tavola era pronto. Sono tornata bambina, figlia, nel giro di pochi giorni. Io, che sono corsa via da casa, dal mio paese, dal quel ruolo bellissimo di figlia, unica e sola. Sono tornata stria, come non lo sono mai voluta essere.

 

O almeno, questo è quello che ho creduto fino a quel momento, fino a che non ho sentito mia madre e mio padre mormorare.

 

Ha durmuto la stria?

 

E la stria non ero più io.

 

Tutto quello che era avvenuto sino a quel giorno – le attenzioni, le preoccupazioni, le cure – non erano per me. Forse un po’, ma solo perché io me la portavo appresso, la stria.

 

I miei genitori non volevano sapere se avevo dormito io, ma se mia figlia – quella ancora nella pancia, quella che ancora non era nata, quella che mi stava spaccando le costole una ad una ogni notte: quella bambina, aveva dormito?

 

Io non lo sapevo se lei aveva dormito. Sapevo, però, che io non avevo dormito perché mi faceva male tutto. Sapevo che io non avevo lavorato perché avevo sonno, che io non avevo mangiato a causa delle nausee che non mi sono mai passate, che io non avevo fumato perché era vietato, che io non avevo letto un pezzo in inglese su Lucia Berlin perché il mio cervello non funzionava più.

 

Chi lo sa, invece, che cosa stava facendo quella stria non ancora nata…

 

La stria. La mia. Quella che poi, quando pochi giorni dopo è nata, si è preso tutto. Ogni spazio, ogni angolo di sentimento.

 

Quando, a distanza di mesi dal parto, io e il mio compagno abbiamo portato la bambina giù – cioè a casa, nel posto dove siamo nati e dove noi siamo stati bambini – una mattina mi sono svegliata e ho chiesto a mia madre: “Mi fai le patate zuccherine fritte con lo zucchero sopra?”.

 

“Non è stagione”, mi ha risposto lei. E poi: “Ma la stria ha durmutu?”.

 

“Sì, ha durmutu”, le ho risposto. Perché lei dorme. La bambina mia, la figlia mia, l’innamorata mia.

 

La stria mia dorme.

 


 

Ilaria Macchia è scrittrice e sceneggiatrice

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