Foto tratta dal profilo Facebook JNF Australia

In dieci secondi

Micol Flammini

Gli aquiloni quando sono missili. I bambini a Kfar Aza sanno come si raggiunge il rifugio: correndo

Kfar Aza. Un aquilone non può essere altro che un aquilone, una cosa leggera che attraversa il cielo se c’è abbastanza vento e che piomba in terra, come un corpo ubriaco, se il vento non c’è. Gli adulti sono goffi quando tentano di far volare un aquilone, corrono con il braccio appeso al cielo, legato a farfalle, dinosauri, rondini, draghi. Corrono più che possono, verso il vento, contro il vento e poi l’aquilone prende il volo sotto gli occhi dei bambini.

 

A Kfar Aza, kibbutz a pochi passi dal confine con Gaza, il prato è bruciato a chiazze e lì dove l’erba non cresce più sono caduti gli aquiloni. Ma non sono aquiloni normali: vengono lanciati da Gaza per incendiare i kibbutz, a Kfar Aza ne sono caduti molti e il prato adesso non è più un prato. Gli aquiloni per i bambini del kibbutz sono forme colorate che bruciano l’erba, arrivano dall’altra parte della barriera, sorvolano il filo spinato e incendiano.

 

Può arrivare un aquilone o può arrivare un missile: nel kibbutz si vive così, attaccati alla pace e alla paura, che si mescolano e si perdono tra le case basse, tra i rifugi colorati che sono ovunque, anche accanto alle fermate degli autobus e quando una madre passeggia per le strade del villaggio con un occhio guarda suo figlio, con l’altro la posizione del rifugio più vicino: da quando parte l’allarme, ci sono dieci secondi per fuggire e correre veloce, abbandonando tutto, verso il rifugio. Nel kibbutz, il pericolo è qualcosa di costante, di silenzioso, qualcosa che si impara, qualcosa che si insegna e ogni bambino deve allenarsi all’emergenza, una parola strana che non appartiene al vocabolario infantile.

 

Era una domenica quando mio padre, con lo sguardo fisso in un punto nel vuoto, un punto molto preciso e insistente, mi chiese quale fosse il mio piano in caso di emergenza, nel caso in cui lui si fosse sentito male. Eravamo in collina, nessuno attorno, lui al mio fianco, il mio zainetto pieno di merende e progetti, quella domenica, come tutti gli altri giorni, non avevo pensato a un piano. Fino a quella domenica durante le nostre passeggiate avevamo parlato e cantato, lui mi raccontava di libri e avventure e io facevo finta di aver letto i libri che lui mi consigliava, non parlavamo di pericoli: i genitori non si sentono mai male, le guerre sono cose lontane e le passeggiate sono passeggiate. Ma lui quella domenica voleva insegnarmi l’emergenza, alla domanda risposi farfugliando, il punto che lui osservava nel vuoto diventava sempre più preciso, e non ricordo se dopo quella ci sono state altre passeggiate in collina. Non avevo missili sopra la testa, non c’erano sirene ad avvisarmi di un pericolo, ma il pensiero di dover avere un piano per affrontare un’emergenza turbò il tramonto.

 

Da maggio, contro Kfar Aza i palestinesi hanno lanciato seicento missili. Gli abitanti sono dovuti fuggire verso i rifugi seicento volte in due mesi, per seicento volte è suonato l’allarme rosso. Tutti sono fuggiti verso i rifugi, ovunque ti trovi nel kibbutz devi sapere a perfezione dove si trova il rifugio più vicino. Il villaggio è pieno di alberi che vengono su da una zona desertica, pieno di case basse dai colori tenui, solo i rifugi sono colorati: sono viola, azzurri, con fiori e soli, sono fantasia e immaginazione, perché i bambini assieme agli adulti devono raggiungerli il più rapidamente possibile, lì dentro devono mettersi in salvo e devono trascorrere il tempo finché l’allarme non rientra.

 

Anche quando dormono, dormono in camerette che sono rifugi: la vita è in un bozzolo, una forma primordiale di esistenza, tesa tra realtà e emergenza. L’allarme può suonare in ogni istante, mentre giocano in piscina, mentre escono di casa per andare a scuola, mentre fanno la doccia, ma questa è una paura degli adulti: essere colti nudi dall’arrivo di un missile. I bambini alla nudità non pensano.

 

Batia è cresciuta a Kfar Aza, anche i suoi figli sono cresciuti nel kibbutz e ora ha un nipote che ha tre anni e sa già cosa sia un missile che vola verso il tuo villaggio. Sa anche quanto durano dieci secondi, il tempo necessario per essere sicuri che non ti succederà nulla. Una delle prime volte che l’allarme rosso ha iniziato a gridare, Batia e suo nipote erano in piscina, lei lo ha preso e ha iniziato a correre. Lui non voleva saperne di muoversi, ma dieci secondi sono un soffio, Batia lo ha preso con la forza e sono fuggiti verso il rifugio, tra i colori hanno aspettato assieme agli altri che l’allarme cessasse. Suo nipote non è più voluto tornare in piscina, gli ricorda l’allarme che grida, ha paura di quella corsa e di quei dieci secondi: “Gli ho spiegato che la paura esiste, che il pericolo è parte della nostra vita, che arriva all’improvviso e ci si salva correndo. Gli ho spiegato che la piscina non c’entra nulla, che bisogna sempre sapere dove si trova un rifugio, che bisogna essere pronti, sempre. Poi l’ho portato a vedere l’altoparlante da dove viene l’allarme: è lui che ti salva la vita, grida per te, grida contro i missili. Tu dammi la mano, dieci secondi e saremo salvi”.

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